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Deportazioni del terzo millennio

Sbirri in abiti borghesi (per passare inosservati) mentre deportano, da Fiumicino alla Tunisia i loro “pacchi umani”. Ben imballati, con nastro adesivo sulla bocca e fascette di plastica ai polsi. Il tutto nell’indifferenza dei passeggeri e del personale di Alitalia, le cui reazioni avrebbero potuto impedire il rimpatrio. L’unico a contestare il trattamento riservato ai due migranti, l’autore delle foto, è stato zittito dagli aguzzini che hanno ribadito come si trattasse di una normale operazione di polizia. A voi i commenti….


Il mio nome è Mnasser Hassen

Pubblichiamo una lettera di un giovane ragazzo tunisino, Hassen.  La lettera è stata scritta durante le ultime settimane di detenzione nel carcere di Lucera. Di lui avevamo già parlato, raccontando le vicende che suo malgrado lo hanno visto protagonista da quando fu trasferito nel cie di Restinco fino alla detenzione in carcere. Segue un breve commento sulle dinamiche legate all’immigrazione con particolare attenzione proprio sul caso di Hassen, che è, se vogliamo, un caso straordinario e assolutamente normale di quello che può accaderti quando sei considerato straniero. Per la gioia di tutti noi, ora Hassen è libero, sta bene ed ha ancora tutte le forze per ricominciare.

Il mio nome è Mnasser Hassen, nato il 28 Luglio 1984 a Sfax in Tunisia, attualmente ristretto nella casa circondariale di Lucera, un paese in provincia di Foggia. Ho deciso di raccontare la storia della mia vita per tutte le persone che come me combattono per la libertà, ai reclusi nei Centri di identificazione ed espulsione e nelle carceri d’Italia, del mio Paese e del resto del mondo.
Come già detto sono nato e cresciuto in una delle più grandi città della Tunisia, all’interno di una famiglia numerosa, ho cinque fratelli e quattro sorelle. All’età di sette anni iniziai a lavorare con mio padre che era proprietario di una piccola barca, uscivamo verso le 17 per rientrare la mattina intorno alle 6. Dopo essermi tolto di dosso l’odore nauseante del pesce, alle 8 ero pronto per andare a scuola. La giornata scolastica si concludeva alle 15 e il tempo a mia disposizione per riposarmi era al quanto limitato, alle 17 si prospettavano le ennesime ore lavorative. Questa routine si ripeteva fino all’arrivo dell’estate, sfruttavo le vacanze scolastiche per poter seguire mio padre in viaggi lavorativi notevolmente più lunghi a differenza delle altre stagioni in cui dovevo rispettare l’obbligo scolastico. Accompagnati da uno dei miei cinque fratelli ci imbarcavamo per circa venti giorni. Mare e scuola sono state le principali protagoniste della mia infanzia. Nel 2002, spinto dal desiderio di creare una famiglia chiesi a mio padre di poter usufruire di uno dei cinque terreni di sua proprietà con l’intenzione di costruire una casa. Ovviamente la sua risposta fu positiva, ma purtroppo il mio progetto fu ostacolato dal comune: in seguito ad una mia richiesta di autorizzazione, dopo aver effettuato un controllo, affermarono che si trattasse di suolo demaniale.
Frustrato e deluso da questi ultimi avvenimenti decisi di partire, destinazione Italia. Come la maggior parte dei miei compaesani che tentano di lasciare il proprio Paese, anche io provai a farlo clandestinamente. Purtroppo la fortuna non fu dalla mia parte e nel tratto di mare tra la Tunisia e Lampedusa a circa 15 km dalle coste siciliane, la nostra barca fu intercettata dai militari del nostro Paese. Riportato a Sfax poi condannato a sei mesi di reclusione nel penitenziario della città. Scontata la pena tornai a lavorare con mio padre finché, nel Novembre del 2004 tramite un articolo letto su un giornale, trovai un corso di scuola alberghiera, partii alla volta di Jerba, un’isola situata al sud della Tunisia, a 350 Km dalla mia città. Con molto impegno riuscii a conseguire un attestato e svolgere uno stage in un hotel con la mansione di aiuto cuoco. Il 25 Ottobre 2005 tentai nuovamente la sorte, imbarcandomi verso l’Italia. Arrivato a Lampedusa fui trasferito nel Cie di un paese in provincia di Foggia. Uscito dal Cie lasciai Foggia per arrivare a Roma, dove risiedeva uno dei miei fratelli. Grazie ai preziosi insegnamenti di mio padre, i quali mi hanno reso un discreto marinaio, ebbi l’occasione di lavorare per cinque mesi all’interno di un peschereccio. Dovetti abbandonare il lavoro in primis a causa del mancato permesso di soggiorno e in secondo luogo per la mia scarsa conoscenza della lingua. Mi misi nuovamente in viaggio verso la Sicilia girandola in lungo e in largo alla ricerca di un lavoro. Passarono tre mesi, ma non cavai un ragno dal buco, pensai che forse andando a Bologna sarei stato più fortunato, non andò come avevo sperato. Mi rimisi in viaggio approdando in Francia dove passai uno dei mesi più brutti e angoscianti della mia vita. Scappai a gambe levate da quella realtà e tornai a Bologna.Non feci in tempo a trovare un’occupazione che l’avevo già persa. Scoraggiato e bisognoso di guadagnare qualche soldo per sopravvivere imboccai la via della perdizione entrando nel mondo dello spaccio di droga, questa scelta mi portò ad avere problemi con la giustizia, ma scampai al carcere rimanendo per quattro giorni in una caserma dei carabinieri. Spaventato da quanto accaduto dissi a me stesso che sarebbe stata la prima e l’ultima volta e che non mi sarei più ritrovato in una situazione del genere. Con l’aiuto di un mio compaesano ebbi l’occasione di lavorare per un anno e quattro mesi svolgendo la mansione di muratore, appena venni a conoscenza che uno dei miei cugini fosse scapato dalla Tunisia e che si trovasse in un paese nella provincia di Trapani, decisi di raggiungerlo. Trovai un impiego come bracciante agricolo, quando dopo circa tre mesi successe un episodio che sconvolse la mia esistenza. Una sera, mentre ero al bar insieme a degli amici, arrivò un ragazzo, anche egli tunisino, annebbiato dai fumi dell’alcol, sostenendo a gran voce che conoscesse uno dei miei fratelli. I toni si fecero accesi, ma la lite sfociò in un nulla di fatto ed io tornai a casa. L’indomani mattina mentre mi preparavo per andare a lavoro, arrivò la polizia chiedendomi le generalità insieme al permesso di soggiorno, di cui ero sprovvisto. Il ragazzo con cui ebbi una discussione la sera precedente aveva sporto denuncia, così fui accusato di tentato omicidio. Fui ristretto nel carcere di Trapani fino al 16 Novembre 2010, esattamente per tre anni e quindici giorni. Una volta uscito fui trasferito nel Cie di Trapani, successivamente in quello di Bari. Chiamarli centri di accoglienza è una definizione del tutto inesatta, il nome che più si addice a questi posti e che riesce a rendere l’idea di come si vive all’interno di essi è lager. Da Bari giunsi nel cie di Restinco- Brindisi dove rimasi solo quattro giorni, ma furono giorni di inferno: quattro notti senza mangiare ne avere la possibilità di fare una doccia poiché l’acqua calda non c’era, e lavarsi con quella fredda non era poi così salutare. Provammo a far valere i nostri diritti in maniera pacifica, ma ricevemmo solo insulti e risposte del tipo: “Ah, perché voi al vostro paese avete una casa, potete permettervi di mangiare e lavarvi!?”.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire il perché di quel trattamento, oltre a privarci della libertà si divertivano ad umiliarci. Spinti dalla disperazione e dalla rabbia ci arrampicammo sul muro di cinta, parecchi riuscirono a scappare, mentre dieci ragazzi, me compreso, vennero fermati dalla polizia. Fui accusato di resistenza e aggressione al pubblico ufficiale. Alcuni poliziotti testimoniarono di avermi visto colpire, munito di un bastone di ferro, un ispettore dei carabinieri e altri agenti, compresi dei militari. Invano il mio tentativo di discolparmi da quelle calugnanti accuse e di chiedere la visione dei video di sorveglianza. Negarono l’esistenza di telecamere all’interno del Cie di Restinco, ma in realtà in ogni angolo dello stesso ne è installata una. Fui condannato ad un anno e due mesi di reclusione.
Oggi, a circa un mese dal mio fine pena che sarà il 3 Marzo 2012, spero con tutto il cuore che una volta tornato in libertà non venga riportato in uno di questi lager italiani dove giornalmente accadono soprusi e abusi di ogni tipo, eppure nella conoscenza della verità, questi episodi non sembrano lasciare tracce rimanendo sinonimi di un male assoluto quanto incomprensibile. Io continuerò a combattere per la mia libertà e per i diritti umani fino all’ultimo respiro. Vorrei ringraziare tutti coloro che leggeranno o ascolteranno la mia triste storia, a chi ricomincia senza dimenticare. Amo il mio Paese così come amo la mia famiglia e non vedo l’ora di poter tornare per riappropriarmi di tutto ciò che ho perso in questi anni.

Mnasser Hassen

La storia di Hassen, raccontata riportando fedelmente quanto scritto su una sua lettera, può apparire la storia di un migrante che percorre una strada irta di ostacoli e sfortunate coincidenze, protagonista di disavventure imputabili all’imprevedibile gioco del fato.
Molte delle sue spiacevoli esperienze possono essere rintracciabili nelle storie autobiografiche dei migranti coraggiosi che, giovanissimi, decidono di affrontare viaggi oggettivamente rischiosi. Quella che sembra essere una scelta spontanea e non vincolata da alcuna costrizione si delinea come la prevedibile evoluzione di un processo globale che allarga a dismisura le disuguaglianze socio- economiche, costringendo, di fatto, un numero sempre più consistente di individui ad abbandonare le loro terre e iniziare un’esperienza con poche prospettive di “riscatto”. Gli ostacoli che incontrano i migranti non sono le esternalità negative di una pianificazione efficiente di gestione di un fenomeno tanto complesso. Niente affatto. Gli ostacoli sono stati voluti, decisi, firmati e programmati.
La storia di Hassen va riletta tenendo conto della Convenzione di Schengen la quale, oltre a stabilire i documenti di cui devono essere provvisti gli stranieri per varcare “legalmente”i confini di uno stato europeo, si occupa anche di creare sistemi di identificazione degli stranieri clandestini e di diffusione, fra i paesi firmatari dell’Accordo, dei dati raccolti attraverso il sistema di riconoscimento degli immigrati irregolari.
La pena detentiva di sei mesi inflitta ad Hassen dopo che è stato riportato in Tunisia, a seguito dell’intercettazione del barcone in cui viaggiava, non è altro che la conseguenza dei numerosi accordi comunitari con i paesi terzi per la riammissione dei propri cittadini. Tali accordi sono considerati gli strumenti più efficaci per la negoziazione in merito all’immigrazione. Dal punto di vista pratico essi prevedono l’erogazione di un contributo finanziario ai paesi che accettano di collaborare con gli stati europei nella gestione degli immigrati irregolari. Nel documento ufficiale delle conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo del Vertice di Siviglia si legge: “Il Consiglio europeo insiste affinché in qualsiasi futuro accordo di cooperazione, accordo di associazione o accordo equivalente che l’Unione europea o la comunità europea concluderà con qualsiasi paese, sia inserita una clausola sulla gestione comune dei flussi migratori, nonché sulla riammissione obbligatoria in caso di immigrazione clandestina. Una cooperazione insufficiente da parte di un paese potrebbe rendere più difficile l’approfondimento delle relazioni tra il paese in questione e l’Unione”.
Nel Febbraio del 2004 la Tunisia apporta modifiche nella legislazione interna al fine di creare dispositivi punitivi nei confronti di coloro che, anche a titolo benevolo, facilitano l’entrata o l’uscita clandestina di una persona dal territorio tunisino. L’Italia, così come la Spagna e la Grecia, stringono accordi di riammissione con regimi dittatoriali. L’accordo del 6 Agosto 1998 fra Italia e Tunisia prevede il finanziamento da parte delle autorità italiane di centri di trattenimento sul territorio tunisino. Nel 2003 fu concluso un secondo accordo avente come obiettivo principale l’addestramento delle forze di polizia tunisine a un controllo rafforzato della frontiera marittima con l’Italia attraverso un’assistenza tecnica.
Il tentativo di Hassen di fuggire dal Centro di identificazione ed espulsione di Restinco, non verrebbe compreso se non lo si inserisse nel quadro legislativo italiano, che prevede il trattenimento fino a diciotto mesi in tali centri, e che vieta a giornalisti ed associazioni di avere accesso al loro interno per comprenderne le condizioni. Hassen non è fra le 580 persone evase dai CIE d’Italia nei soli mesi di Agosto e Settembre 2011, poiché non è riuscito nel suo intento.
Sarà sicuramente uno dei tanti migranti le cui vite non hanno rilevanza mediatica e suscitano poco interesse per gli storici che selezionano i fatti da raccontare rispondendo alle logiche editoriali di domanda e offerta; non avranno, dunque, in futuro lo spazio che meritano nelle pagine dei libri della storia da conoscere.
L’importanza della memoria storica risiede nella capacità che essa ha di diventare l’esperienza che permette di affrontare il presente. Il popolo italiano non essendo a conoscenza di ciò che attualmente accade agli stranieri nel nostro paese, sta creando inconsapevolmente le condizioni affinché questo pezzo di presente non abbia spazio nella storia e che,quindi, nulla cambi in futuro.


M, la storia è (in)finita

Alcuni mesi fa è stata raccontata da questo blog la storia di una tentata fuga, e delle vicende di uno dei protagonisti, se non il protagonista, un ragazzo che ora ha 27 anni, e che noi chiamiamo M.

Nessuno lo conosce, questo è chiaro, a parte alcuni suoi solidali, fuori, e la maggior parte di quelli che, dentro, erano rinchiusi come lui nel cie di Restinco all’epoca dei fatti. Si ricordano di lui perché, in un gesto che sapeva al tempo stesso di coraggio e disperazione, egli aveva permesso la fuga di un suo compagno di reclusione,  scacciando con una scala le guardie accorse ad impedire la fuga

Per quell’episodio, e questo ha certamente il sapore della vendetta, è stato condannato ad 1 anno e 2 mesi.

Oggi M. ha trascorso 9 mesi in carcere, da quel giorno, e chissà quanti in un cie, prima.

Tra qualche giorno sarà “liberato”, il motivo è che gli è stato notificato un decreto di espulsione, che M. si è rifiutato di firmare. Uscirà dal carcere, ed il giorno stesso sarà deportato in Tunisia, suo paese natale.

Questo è un invito.

E’ una storia raccontata perché nessuno dica che non sapeva. E’ l’esortazione, rivolta a chiunque, a ribellarsi a questo stato di cose, ognuno nelle sue possibilità e ciascuno con tutte le sue volontà, perché si impedisca che una persona venga detenuta e poi deportata e che tutto ciò passi sotto silenzio perché ritenuto oramai la normalità.

A tutto c’è un limite.

L’11 dicembre c’è un presidio sotto il cie di Restinco, perché né M. né gli altri siano soli.

Che sia un grido dal silenzio, un grido d’innocenza che faccia tremare i timpani ai finti tonti. (M., carcere di Lucera, nov 2011)

nociebr.noblogs.org


Tradizioni pugliesi: Manduria

Provate a leggere questo articolo pubblicato sull’edizione di Bari della Repubblica. Vorrebbe raccontare delle intenzioni della politica di chiudere il campo-lager di Manduria, perchè, a quanto si legge dalle dichiarazioni del solito Berluschese-Ferrarese, presidente della provincia di Brindisi, “le condizioni di vita nel campo sono allucinanti”. Beh, qualcuno penserà che sia già un buon passo, il fatto che questo individuo si sia reso conto di dove vive (lui) e di dove vivono (gli immigrati) che sbarcano a Lampedusa e vengono portati in queste tendopoli-lager.

Oltre a queste dichiarazioni,  solite parole al vento della politica più squallida, quella che non cambia mai niente poichè è nella staticità e nella continuazione dello stato di cose che essa sguazza e fa quattrini, naturalmente i fatti vanno in tutt’altra direzione. A Manduria ora sono in 1300, esattamente come nei primi giorni dell’emergenza mediatica, (ma ora ci sono anche donne e bambini molto piccoli)  dopo l’arrivo dell’ennesima nave a Taranto. Quindi aumentano. Le temperature, per chi non ne avesse idea, in questi giorni sono più simili ai paesi di provenienza dei migranti, sfiorano i 40 gradi, e i signori dell’emergenza, i vari Connecting people e Ministero degli Interni hanno pensato bene di installare condizionatori all’interno delle tende…una mossa geniale.

Infine altre dichiarazioni di politici tra assessori regionali, sindaco di Brindisi e l’immancabile governatore con l’orecchino, che danno disponibilità all’uso di una vecchia base americana abbandonata da decenni per ospitare i migranti rinchiusi a Manduria, a patto che venga ristrutturata con i soldi del governo, mantenendo la gestione attuale, quindi quella del consorzio Nuvola. Forse un tentativo di alleviare le sofferenze di chi, con un contratto da sfruttamento e nessuna prospettiva futura, fa la spola da qualche mese tra il campo di Manduria ed il Cie di Restinco. La base sorge infatti a pochi chilometri dal lager per eccellenza del brindisino, quel Cie conosciuto oramai in tutta Italia per gli episodi barbari che lì avvengono continuamente, anche se ora l’isolamento dei reclusi con il mondo esterno  si è fatto più pesante.

Insomma, la Puglia è terra di tradizioni, e l’accoglienza è una di queste…accendete il condizionatore, che non si respira…


Dal lager di Ponte Galeria

Roma, 13 luglio 2011

Scrivo a nome di cinque persone che sono detenute qua nel centro di Ponte Galeria a Roma.
Siamo quasi 200 uomini e 50 donne detenuti al centro di Ponte Galeria.
Qua siamo detenuti come colpevoli, come persone che hanno commesso un reato.
Perché sei mesi? è un periodo troppo lungo.
E ora vogliono aumentare a diciotto mesi.
Ma quelli che fannno queste leggi non sanno niente della nostra situazione e della nostra sofferenza.
Soprattutto quel partito della Lega Nord, quello del ministro Maroni.
La corte europea ha tolto l’articolo 14 della legge Bossi-Fini e questa è una sconfitta per Maroni.
E allora lui vuole fare una rivincita con un’altra legge che ammazza la gente: vuole convincere gli italiani che è per motivi di sicurezza ma è una legge fatta per un motivo fascista e basta.

Qua c’è gente per bene e gente per male, come in tutto il mondo.
Anche in Veneto, da dove viene lui, ci sono tanti stranieri che lavorano nell’agricoltura e nelle fabbriche.
A Milano e a Brescia il lavoro duro lo fanno gli stranieri.
Noi non siamo venuti qua dalla Tunisia per fare i delinquenti.
Una volta gli italiani hanno fatto per primi l’immigrazione in America.
Dicono che gli italiani sono mafiosi ma ci sono anche italiani per bene che hanno fatto la storia in America.

Noi crediamo all’Italia e all’Europa.
Noi non siamo venuti per fare male.
Io sono tunisino e sono scappato da una situazione disumana.
Dopo la caduta del nostro presidente Ben Alì non è cambiato niente, tutti i giorni ci sono manifestazioni e la gente muore per strada.
Abbiamo sentito che Maroni ha fatto un accordo col nuovo governo della Tunisia e rimandano lì la gente che arriva in Italia.
Ma nei nostri paesi c’è la guerra civile e i rifugiati che arrivano dalla Libia sono tutti qui.
Lì per noi non c’è niente da mangiare.

Ma noi amiamo l’Italia.
Nei nostri paesi guardiamo RaiUno e tifiamo per le squadre italiane.
Io sono nato nella città dove è nata Claudia Cardinale.
Non abbiamo problemi con voi italiani.
Noi veniamo perché sognamo la libertà, come voi una volta sognavate l’America.
E’ il nostro sogno e invece veniamo qua e troviamo un centro come questo a Ponte Galeria.
Perché? noi non abbiamo commesso niente.

Ti dicono che dopo sei mesi esci, ma io sono venuto qua per migliorare, per cambiare, per guadagnare qualcosa per i nostri figli e per le nostre famiglie perché nel nostro paese c’è la povertà.
E invece una mattina ti svegliano alle sei del mattino e entrano 20 persone coi guanti, ti portano in una stanza e ti tolgono tutta la tua roba e ti rimandano a casa.
Qua c’è gente che dell’Italia non ha visto niente, solo questo centro, e non parla nemmeno una parola d’italiano e la rimandano al paese suo senza il telefono e senza le sue cose.
Noi li chiamiamo al telefono e loro non rispondono perché il telefono è qua.
Ma poi quando ci chiamano, ci dicono che li hanno riportati al paese senza niente.

Noi siamo detenuti qua, in una situazione proprio disumana: otto persone in una stanza di quattro metri per quattro.
Viviamo uno attaccato al letto dell’altro.
Chi si alza dopo le otto del mattino non prende la sua colazione.
Chi arriva ultimo per la fila non arriva a prendere il pranzo e la cena perché noi facciamo la fila in 200 persone per prendere il nostro mangiare.
Chi arriva ultimo non arriva a prendere il suo pasto.
Ti danno un buono di 3 euro e 50 al giorno per comprare sigarette, shampoo, merendine, però non bastano, è troppo poco.
Anche per fare la doccia, l’acqua non c’è tutti giorni e nemmeno shampoo, asciugamano e dentifricio.
La gente scappata dalla morte non ha portato lo shampoo e la roba per fare la doccia dal suo paese.

Anche le pulizie non le fanno abbastanza perché i dipendenti della Auxilium si lamentano che li pagano poco e che il loro stipendio è basso.
Quelli della Auxilium ti ridono in faccia e ti accoltellano alle spalle, buttano le pietre e nascondono la mano.
Li chiami e non viene nessuno, sono troppo furbi.
Dei poliziotti non ne parliamo proprio, se dici “buongiorno” non ti rispondono.
Quando rimandano le persone al loro paese le legano come un pacco postale, legano mani e piedi e mettono una fascia sulla bocca per non farle gridare, per non farle sentire al pilota.
Ti fanno salire per ultimo così nessuno ti vede.
I poliziotti sono pronti per intervenire e dare botte come in un mattatoio.
I detenuti spesso si sentono male, hanno fatto il viaggio in mare, vengono dal loro paese e non sanno palrare, nessuno li capisce e la polizia li mena per farli calmare, così quelli dormono e basta.
Gente venuta da un’altra cultura, un altro mondo diverso dall’italia.
Gente che non ha paralto con nessuno e non ha visto niente dell’italia e si sente presa in giro, incompresa.
Le persone qui vorrebbero parlare ma nessuno li capisce, non hanno lingua per parlare e nessuno li ascolta, quindi per questo si ribellano e la polizia li picchia con i manganelli, con calci, pugni e tutto.

Un altro problema: la gente è venuta dal mare, fanno viaggi della morte per arrivare qua.
Quando arrivano sentono sei mesi e gridano tutta la notte, non hanno la testa normale e chiedono al medico tranquillanti perché hanno solo paura del domani, non dormono la notte e cercano un modo nelle medicine.
Gli infermieri ti danno le terapie per drogati e la gente dorme tutto il giorno, hanno la faccia gonfia come drogati e la notte urlano e gridano, sono disperati.
Prendono le gocce e se il giorno dopo devi partire te ne danno di più, così quando ti vengono a prendere non capisci nulla, è per evitare che ti ribelli alla deportazione.

Le nostre richieste sono:

Vogliamo che tutti i cittadini italiani sentano la nostra voce, che vicino a Roma ci sono 250 persone che soffrono di brutto, tutti giovani, donne e uomini, gente che è venuta qua in italia perché sogna la libertà, la democrazia. Perché non abbiamo vissuto la democrazia, abbiamo sentito quella parola ma non l’abbiamo mai vissuta.

Noi chiediamo l’aiuto della gente fuori, aiutateci e dovete capire che qua c’è gente che non ha fatto male a nessuno e che sta soffrendo.

Noi soffriamo già 6 mesi, figurati 18 mesi. Se passa la legge qui c’è gente che fa la corda perché già così, con i sei mesi, c’è gente che si è tagliata le mani, figurati con diciotto mesi, la gente si ammazza, la gente esce fuori di testa.

Chiediamo che la gente là fuori, tutti, anche i partiti politici, faccia di tutto per non far passare quella legge.

Chiediamo che la gente fuori, ogni giovedì mattina, vada a vedere a Fiumicino le persone portate via con la forza, che vada a fermare il massacro.

Un gruppo di detenuti del Cie di Ponte Galeria


Fare finta di niente

http://www.youtube.com/watch?v=k5ygm-ayNnM&feature=player_embedded

 

Non pensarci troppo, può rovinarti la giornata. Cosa c’è stasera in giro? Andiamo a fare l’happy hour?


Bari Palese: blocco dei binari

dalla Repubblica di Bari

Sta tornando alla normalità la circolazione ferroviaria, sospesa dalle 11.35 alle 14.15 tra le fermate di Bari Zona Industriale e Bari Palese, per l’occupazione dei binari da parte di un gruppo di immigrati ospiti del vicino “Cara” di Palese, il Centro di Identificazione Richiedenti Asilo. Il traffico ferroviario è ripreso dopo l’intervento delle squadre tecniche del Gruppo FS, necessario a verificare l’integrità dei binari e il regolare funzionamento dei sistemi di sicurezza.

LE MOTIVAZIONI – Circa 150 immigrati quasi tutti di nazionalità africana hanno protestano in seguito alla bocciatura delle loro richieste di asilo che avrebbero ricevuto ieri dalla Commissione ministeriale competente. “Vogliamo sapere la verità sulle nostre richieste, altrimenti non andremo via da qui – spiegano – anche perchè molti di noi, dopo cinque mesi di attesa nel Cara, ieri hanno scoperto che devono tornarsene a casa: ci auguriamo che la nostra protesta si estenda”. I migranti mostrano cartelloni con le scritte “Documents ora”, “Go away” e “Non vogliamo rilasciare le impronte digitali, ma vogliamo i nostri documenti”‘.Sostegno alla protesta è stata espressa dal Collettivo antirazzista di Sinistra Critica.

DISAGI AL TRAFFICO – In mattinata si sono avvertiti disagi alla circolazione ferroviaria: lo stop ha causato la cancellazione di 25 treni regionali e ritardi medi di circa due ore per quattro convogli a lunga percorrenza. Trenitalia ha attivato servizi sostitutivi per i viaggiatori con bus-navette tra Bari e Foggia e fornito assistenza e informazioni ai circa 8 mila viaggiatori coinvolti. Per altri treni in arrivo sono stati già preannunciati ritardi da parte delle Ferrovie dello Stato. Il traffico ferroviario è ripreso – fa sapere Ferrovie dello Stato – dopo l’intervento delle squadre tecniche del Gruppo FS.

SOSTENITORI DELLA PROTESTA – L’occupazione dei binari ferroviari alle porte di Bari da parte dei migranti cui è stato rifiutato l’asilo politico in Italia è “la logica conseguenza della esasperazione dovuta alla incapacità delle istituzioni nel dare risposte chiare e precise, e delle politiche razziste e xenofobe dei nostri governi nazionali e locali celati da false politiche solidali”. Lo afferma “Sinistra critica” per la quale la protesta “rappresenta una forma di ribellione rispetto alla repressione che tutti i migranti in Italia ed in tutta Europa subiscono quotidianamente”. “Solidarizziamo con le proteste dei migranti del Cara di Bari per la libertà di circolazione, con la loro richiesta di documenti – conclude – e di una vita dignitosa”.

LA PAROLA DEL PREFETTO
– Interviene sulla vicenda il prefetto vicario del capoluogo pugliese Antonella Bellomo:”Abbiamo spiegato che possono fare ricorso contro il diniego e nel frattempo nessuno li manderà via dal Cara di Bari. Purtroppo – ha aggiunto – probabilmente davano per scontato che le loro richieste sarebbero state accolte: adesso le esamineremo caso per caso”.

CASI DUBLINO – Un problema a parte sono i “cosiddetti casi Dublino – ha spiegato il prefetto Bellomo – che riguardano coloro che hanno presentato le domande in altri Stati europei. A Bari di “casi Dublino” ce ne sono in tutto 80, la metà dei quali proviene dalla Grecia. Per presentare i ricorsi contro il diniego, i migranti dovranno sostenere spese legali. Chi le pagherà? “Ci sono alcune associazioni – ha continuato – e anche il Comune di Bari che si sono offerti di aiutarli”.
“I migranti vorrebbero tutti un permesso temporaneo, come è accaduto per i tunisini, per lavorare e circolare. Ma questo può deciderlo solo il governo. Noi a Bari – ha concluso Bellomo – non abbiamo la soluzione a tutti i loro problemi”.


Restinco: fuga riuscita!

Per una volta siamo qui a darvi una buona notizia. Un ragazzo, tunisino di 26 anni, nel pomeriggio di ieri  13 maggio è riuscito a fuggire dal cie di Restinco. A tutt’ora non sono ben note le dinamiche. Sicuramente la fuga è stata rocambolesca, considerazione intuibile dal fatto che il fuggitivo presentava numerosi tagli sul corpo ed era senza scarpe. Ha camminato per ore in aperta campagna, poi la fortuna ha voluto che incontrasse delle persone che gli hanno offerto prima assistenza e lo hanno rifocillato. Ha passato la notte in una struttura sicura, stamane sembra sia stato accompagnato ad una stazione, e da lì è partito verso la destinazione che voleva raggiungere.

Usiamo il condizionale sia per l’obbligo di riferire solo le notizie certe, ma anche per la volontà di non interferire con il difficile percorso verso la libertà che questo ragazzo sta affrontando.

Indispensabile dire che queste sono le notizie che ci riempiono di gioia. Quando una reclusione, ingiusta in ogni caso, viene spezzata dall’iniziativa diretta e viene aiutata da chi ha deciso di opporsi a detenzioni e deportazioni, questo non può che essere una vittoria per noi. Ci sono molti modi per sabotare questo infame sistema di caccia all’immigrato. Per una volta noi siamo complici. E felici. Auguriamo al ragazzo di riuscire a soddisfare i propri desideri. Seguiranno aggiornamenti.

 


La piccola Guantanamo

Chissà se adesso il leader dei sinistri, Marco Travaglio, l’amico dei Santoro e dei Grillo, quello che ha fatto della (presunta) legalità la sua bandiera, brandendola ogni giorno contro Berlusconi quasi fosse una sua ossessione personale, forse credendo che i problemi italiani siano legati solo all’attuale classe politica che governa questo paese, chissà se adesso avrà imparato cosa è un cie. Impegnato com è, giorno e notte, a leggere le carte processuali del premier e a fare spettacoli teatrali incentrati sul rispetto della costituzione e della legalità, forse non si era accorto dell’esistenza di lager per migranti autorizzati, appunto, dalla legge. Adesso il suo giornale pubblica un’intervista ed un video sul neo-nato cie di Santa Maria Capua Vetere, presunto centro d’accoglienza per stranieri nato con l’emergenza degli sbarchi e diventato, dalla sera alla mattina, un cie, tramite un decreto del ministro Maroni. Ora, se qualcuno gli chiedesse cosa ne pensa dei cie, si spera che non risponda più come fece ad alcuni di noi, prima di un suo spettacolo, dicendo ” io dei cie non so nulla, sono di Torino”. Dopo il cie campano, lo invitiamo a documentarsi su quello di Corso Brunelleschi, proprio a Torino. Chissà che magari non scopra che la legalità molto spesso giustifica crimini orrendi.

Questo è il video, da vedere:

Questo è l’articolo da Il Fatto Quotidiano:

Samir: “La mia prigionia  nelle tende blu del Cie”

Chiuso in un campetto circondato da una rete. Osservato giorno e notte dagli agenti. Costretto in una tenda con dieci persone. E alla fine, magari, rispedito in Tunisia. Per finire nella “piccola Guantanamo”, come viene chiamata dai migranti, Samir ha dato tutti i risparmi agli scafisti e ha rischiato di morire su un relitto fino a Lampedusa. “Sarai ospitato in un centro di accoglienza”, gli hanno detto portandolo a Santa Maria Capua Vetere. E invece lo hanno rinchiuso in questo campo di calcio che con un decreto è stato trasformato in Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Una specie di prigione.

Difficile accertare come siano trattati gli “ospiti” del Cie di Santa Maria Capua Vetere. Entrare è impossibile. Devi salire all’ultimo piano di uno dei condomini che si affacciano sulla vecchia caserma che ospita il campo. Da lassù capisci: da una parte il carcere militare, dall’altra la caserma. Nel campo ecco una quarantina di tende blu. Intorno decine di poliziotti e carabinieri con le camionette. Gli immigrati sono costretti a passare le giornate dentro le tende.

Lo chiamano Cie, ma ricorda un po’ le immagini del Sudamerica negli anni Settanta: “Il 26 aprile quei disperati si sono ribellati: hanno cercato di scavalcare il muro di cinta alto sei metri. C’erano ragazzi che cadevano, che si ferivano con i cocci di bottiglia in cima al muro. Urla, sangue. Decine sono scappati, gli altri sono rimasti al campo”, racconta Luisa, una donna che dal suo appartamento si vede davanti la scena. Ma che cosa è successo davvero a Santa Maria Capua Vetere? Gli avvocati Cristian Valle e Antonio Coppola hanno raccolto i racconti di Samir e dei suoi compagni nei verbali della polizia: “Ci hanno portato qui il 18 aprile. Nonostante ci dicessero che avremmo avuto un permesso di soggiorno temporaneo, da quel giorno è come se fossimo in prigione. Addirittura il 21 aprile il governo ha trasformato il campo in un Cie, senza nemmeno che fossimo avvertiti”. Quando i tunisini apprendono che la struttura che doveva accoglierli, curarli e restituirli alla libertà, si è trasformata in una prigione, scoppia la ribellione che il 26 aprile porta alla maxi-evasione. Da quel momento le condizioni di detenzione per chi non è riuscito a fuggire diventano durissime. “Dicono che abbiamo firmato un foglio che li autorizzava a trattenerci, ma non è vero”, raccontano gli immigrati nei verbali.

Già, il primo punto è questo: “Le autorità dicono che i tunisini avrebbero autorizzato la polizia a trattenerli. Ma gli immigrati a noi raccontano di aver firmato per ottenere i vestiti. Alcuni giurano che le firme non sono le loro”, sostiene Mimma D’Amico del centro sociale Ex Canapificio di Caserta. Mimma è una ragazza con gli occhi azzurri che contrastano con questo ambiente duro. Con i suoi amici da anni segue gli immigrati, a cominciare dagli africani che a due passi da qui, a Casal di Principe, vivono – e vengono uccisi – come bestie.

I ragazzi dell’Ex Canapificio, insieme con la Caritas, seguono i tunisini del campo: “Abbiamo presentato un esposto. Non si può trasformare l’assistenza in detenzione”.

Ma in mezzo all’ondata di decine di migliaia di immigrati, i 102 ospiti di Santa Maria Capua Vetere sono stati dimenticati. È Abdul, il nome è di fantasia, a raccontare la loro storia: “Siamo 11 per ogni tenda, senza vestiti. Ci lasciano andare in bagno una volta al giorno… dobbiamo fare i nostri bisogni nelle bottiglie. E non possiamo nemmeno andare in infermeria… siamo trattati come animali. Di notte c’è freddo, ci hanno dato solo una coperta. Siamo costretti a dormire sempre perché non c’è la luce”. Abdul adesso potrebbe essere rispedito in Tunisia: “Sarebbe una tragedia. Ben Alì se n’è andato, ma ci sono i suoi amici. La gente come noi che ha partecipato alle manifestazioni rischia grosso”.

Tutto vero? Questo raccontano Abdul e i suoi amici. Di sicuro i tunisini secondo la legge avrebbero il diritto di essere ascoltati uno per uno. Dovrebbero essere ospitati in condizioni dignitose, anche se negli ultimi giorni (da quando la Croce Rossa gestisce il campo) le tende sono meno affollate e i controlli più elastici.

Il racconto di Abdul trova comunque conferme nelle parole di Marco Perduca, senatore radicale (gruppo Pd) che ha visitato il campo: “Questo centro è fuori della legge. Non può ospitare persone addirittura per sei mesi. Non si può stare così… nei giorni scorsi ha piovuto, ci sono materassi bagnati, gente che dorme praticamente per terra. E poi mancano controlli sanitari: se ci fossero persone con malattie infettive qui non si saprebbe. Per non dire dei feriti… ho visto persone ingessate, altre con tumefazioni che potrebbero essere provocate da scontri fisici”. Non basta: “Le persone che richiedono assistenza non dovrebbero stare nel Cie, invece noi abbiamo visto anche famiglie, perfino un minore… gente che vive ignorando che cosa li aspetta”.

Dalla Prefettura di Caserta la raccontano diversamente: “Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Emergenze? C’è stata una fuga di massa. Qualcuno si è ferito scavalcando il muro”. Gli immigrati dicono che non vi hanno mai autorizzato a trattenerli… “Hanno firmato di loro spontanea volontà”. Gli agenti del campo, però, sussurrano: “Qui è un casino: da una parte ci sono questi poveracci, dall’altra ci arrivano ordini da Roma. E noi siamo in mezzo”.

La signora Luisa dalla finestra della sua casa sorride amara: “Mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano firmato per essere trattati così. Chissà… parlano arabo, non capiscono una parola di italiano, se un carabiniere gli dice di firmare un foglio che cosa volete che facciano?”. Poi Luisa guarda lontano, verso la campagna di Casal di Principe, verso l’orizzonte, dove si vede il bagliore del mare, Napoli: “Questa è una terra difficile. Abbiamo un sacco di guai per conto nostro, ma quei ragazzi fanno pena. Chissà cosa direbbero le loro madri se li vedessero ridotti così”.

Caro Travaglio, TUTTI i cie sono una vergogna.


La malattia della polizia

Nella giornata del 1° maggio sembra che un tunisino rinchiuso nel cie di Restinco sia stato ricoverato all’ospedale Perrino perchè gli è stata riscontrata una malattia infettiva del tipo morbillo.

Chissà, naturalmente, se dal momento dell’incubazione a quando il tunisino è stato portato in ospedale la malattia non si sia diffusa sia tra i detenuti, ma anche tra chi lì dentro presta servizio.

La notizia, infatti, diffusa dal sindacato di polizia, non era certo incentrata sulle condizioni del tunisino o degli altri reclusi di Restinco, ma semplicemente una mesta polemica tra funzionari dell’ordine che fanno la gara a chi prima scarica le proprie responsabilità… sembra che i gravi pericoli per la salute valgano solo per il personale di polizia, che non ha ricevuto ancora guanti, mascherine e quant’altro occorra da chi di competenza. E con quanto zelo si fanno i nomi dei presunti colpevoli.

Mentre alcuni reclamano mascherine e guanti, altri attendono libertà.