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Il mio nome è Mnasser Hassen

Pubblichiamo una lettera di un giovane ragazzo tunisino, Hassen.  La lettera è stata scritta durante le ultime settimane di detenzione nel carcere di Lucera. Di lui avevamo già parlato, raccontando le vicende che suo malgrado lo hanno visto protagonista da quando fu trasferito nel cie di Restinco fino alla detenzione in carcere. Segue un breve commento sulle dinamiche legate all’immigrazione con particolare attenzione proprio sul caso di Hassen, che è, se vogliamo, un caso straordinario e assolutamente normale di quello che può accaderti quando sei considerato straniero. Per la gioia di tutti noi, ora Hassen è libero, sta bene ed ha ancora tutte le forze per ricominciare.

Il mio nome è Mnasser Hassen, nato il 28 Luglio 1984 a Sfax in Tunisia, attualmente ristretto nella casa circondariale di Lucera, un paese in provincia di Foggia. Ho deciso di raccontare la storia della mia vita per tutte le persone che come me combattono per la libertà, ai reclusi nei Centri di identificazione ed espulsione e nelle carceri d’Italia, del mio Paese e del resto del mondo.
Come già detto sono nato e cresciuto in una delle più grandi città della Tunisia, all’interno di una famiglia numerosa, ho cinque fratelli e quattro sorelle. All’età di sette anni iniziai a lavorare con mio padre che era proprietario di una piccola barca, uscivamo verso le 17 per rientrare la mattina intorno alle 6. Dopo essermi tolto di dosso l’odore nauseante del pesce, alle 8 ero pronto per andare a scuola. La giornata scolastica si concludeva alle 15 e il tempo a mia disposizione per riposarmi era al quanto limitato, alle 17 si prospettavano le ennesime ore lavorative. Questa routine si ripeteva fino all’arrivo dell’estate, sfruttavo le vacanze scolastiche per poter seguire mio padre in viaggi lavorativi notevolmente più lunghi a differenza delle altre stagioni in cui dovevo rispettare l’obbligo scolastico. Accompagnati da uno dei miei cinque fratelli ci imbarcavamo per circa venti giorni. Mare e scuola sono state le principali protagoniste della mia infanzia. Nel 2002, spinto dal desiderio di creare una famiglia chiesi a mio padre di poter usufruire di uno dei cinque terreni di sua proprietà con l’intenzione di costruire una casa. Ovviamente la sua risposta fu positiva, ma purtroppo il mio progetto fu ostacolato dal comune: in seguito ad una mia richiesta di autorizzazione, dopo aver effettuato un controllo, affermarono che si trattasse di suolo demaniale.
Frustrato e deluso da questi ultimi avvenimenti decisi di partire, destinazione Italia. Come la maggior parte dei miei compaesani che tentano di lasciare il proprio Paese, anche io provai a farlo clandestinamente. Purtroppo la fortuna non fu dalla mia parte e nel tratto di mare tra la Tunisia e Lampedusa a circa 15 km dalle coste siciliane, la nostra barca fu intercettata dai militari del nostro Paese. Riportato a Sfax poi condannato a sei mesi di reclusione nel penitenziario della città. Scontata la pena tornai a lavorare con mio padre finché, nel Novembre del 2004 tramite un articolo letto su un giornale, trovai un corso di scuola alberghiera, partii alla volta di Jerba, un’isola situata al sud della Tunisia, a 350 Km dalla mia città. Con molto impegno riuscii a conseguire un attestato e svolgere uno stage in un hotel con la mansione di aiuto cuoco. Il 25 Ottobre 2005 tentai nuovamente la sorte, imbarcandomi verso l’Italia. Arrivato a Lampedusa fui trasferito nel Cie di un paese in provincia di Foggia. Uscito dal Cie lasciai Foggia per arrivare a Roma, dove risiedeva uno dei miei fratelli. Grazie ai preziosi insegnamenti di mio padre, i quali mi hanno reso un discreto marinaio, ebbi l’occasione di lavorare per cinque mesi all’interno di un peschereccio. Dovetti abbandonare il lavoro in primis a causa del mancato permesso di soggiorno e in secondo luogo per la mia scarsa conoscenza della lingua. Mi misi nuovamente in viaggio verso la Sicilia girandola in lungo e in largo alla ricerca di un lavoro. Passarono tre mesi, ma non cavai un ragno dal buco, pensai che forse andando a Bologna sarei stato più fortunato, non andò come avevo sperato. Mi rimisi in viaggio approdando in Francia dove passai uno dei mesi più brutti e angoscianti della mia vita. Scappai a gambe levate da quella realtà e tornai a Bologna.Non feci in tempo a trovare un’occupazione che l’avevo già persa. Scoraggiato e bisognoso di guadagnare qualche soldo per sopravvivere imboccai la via della perdizione entrando nel mondo dello spaccio di droga, questa scelta mi portò ad avere problemi con la giustizia, ma scampai al carcere rimanendo per quattro giorni in una caserma dei carabinieri. Spaventato da quanto accaduto dissi a me stesso che sarebbe stata la prima e l’ultima volta e che non mi sarei più ritrovato in una situazione del genere. Con l’aiuto di un mio compaesano ebbi l’occasione di lavorare per un anno e quattro mesi svolgendo la mansione di muratore, appena venni a conoscenza che uno dei miei cugini fosse scapato dalla Tunisia e che si trovasse in un paese nella provincia di Trapani, decisi di raggiungerlo. Trovai un impiego come bracciante agricolo, quando dopo circa tre mesi successe un episodio che sconvolse la mia esistenza. Una sera, mentre ero al bar insieme a degli amici, arrivò un ragazzo, anche egli tunisino, annebbiato dai fumi dell’alcol, sostenendo a gran voce che conoscesse uno dei miei fratelli. I toni si fecero accesi, ma la lite sfociò in un nulla di fatto ed io tornai a casa. L’indomani mattina mentre mi preparavo per andare a lavoro, arrivò la polizia chiedendomi le generalità insieme al permesso di soggiorno, di cui ero sprovvisto. Il ragazzo con cui ebbi una discussione la sera precedente aveva sporto denuncia, così fui accusato di tentato omicidio. Fui ristretto nel carcere di Trapani fino al 16 Novembre 2010, esattamente per tre anni e quindici giorni. Una volta uscito fui trasferito nel Cie di Trapani, successivamente in quello di Bari. Chiamarli centri di accoglienza è una definizione del tutto inesatta, il nome che più si addice a questi posti e che riesce a rendere l’idea di come si vive all’interno di essi è lager. Da Bari giunsi nel cie di Restinco- Brindisi dove rimasi solo quattro giorni, ma furono giorni di inferno: quattro notti senza mangiare ne avere la possibilità di fare una doccia poiché l’acqua calda non c’era, e lavarsi con quella fredda non era poi così salutare. Provammo a far valere i nostri diritti in maniera pacifica, ma ricevemmo solo insulti e risposte del tipo: “Ah, perché voi al vostro paese avete una casa, potete permettervi di mangiare e lavarvi!?”.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire il perché di quel trattamento, oltre a privarci della libertà si divertivano ad umiliarci. Spinti dalla disperazione e dalla rabbia ci arrampicammo sul muro di cinta, parecchi riuscirono a scappare, mentre dieci ragazzi, me compreso, vennero fermati dalla polizia. Fui accusato di resistenza e aggressione al pubblico ufficiale. Alcuni poliziotti testimoniarono di avermi visto colpire, munito di un bastone di ferro, un ispettore dei carabinieri e altri agenti, compresi dei militari. Invano il mio tentativo di discolparmi da quelle calugnanti accuse e di chiedere la visione dei video di sorveglianza. Negarono l’esistenza di telecamere all’interno del Cie di Restinco, ma in realtà in ogni angolo dello stesso ne è installata una. Fui condannato ad un anno e due mesi di reclusione.
Oggi, a circa un mese dal mio fine pena che sarà il 3 Marzo 2012, spero con tutto il cuore che una volta tornato in libertà non venga riportato in uno di questi lager italiani dove giornalmente accadono soprusi e abusi di ogni tipo, eppure nella conoscenza della verità, questi episodi non sembrano lasciare tracce rimanendo sinonimi di un male assoluto quanto incomprensibile. Io continuerò a combattere per la mia libertà e per i diritti umani fino all’ultimo respiro. Vorrei ringraziare tutti coloro che leggeranno o ascolteranno la mia triste storia, a chi ricomincia senza dimenticare. Amo il mio Paese così come amo la mia famiglia e non vedo l’ora di poter tornare per riappropriarmi di tutto ciò che ho perso in questi anni.

Mnasser Hassen

La storia di Hassen, raccontata riportando fedelmente quanto scritto su una sua lettera, può apparire la storia di un migrante che percorre una strada irta di ostacoli e sfortunate coincidenze, protagonista di disavventure imputabili all’imprevedibile gioco del fato.
Molte delle sue spiacevoli esperienze possono essere rintracciabili nelle storie autobiografiche dei migranti coraggiosi che, giovanissimi, decidono di affrontare viaggi oggettivamente rischiosi. Quella che sembra essere una scelta spontanea e non vincolata da alcuna costrizione si delinea come la prevedibile evoluzione di un processo globale che allarga a dismisura le disuguaglianze socio- economiche, costringendo, di fatto, un numero sempre più consistente di individui ad abbandonare le loro terre e iniziare un’esperienza con poche prospettive di “riscatto”. Gli ostacoli che incontrano i migranti non sono le esternalità negative di una pianificazione efficiente di gestione di un fenomeno tanto complesso. Niente affatto. Gli ostacoli sono stati voluti, decisi, firmati e programmati.
La storia di Hassen va riletta tenendo conto della Convenzione di Schengen la quale, oltre a stabilire i documenti di cui devono essere provvisti gli stranieri per varcare “legalmente”i confini di uno stato europeo, si occupa anche di creare sistemi di identificazione degli stranieri clandestini e di diffusione, fra i paesi firmatari dell’Accordo, dei dati raccolti attraverso il sistema di riconoscimento degli immigrati irregolari.
La pena detentiva di sei mesi inflitta ad Hassen dopo che è stato riportato in Tunisia, a seguito dell’intercettazione del barcone in cui viaggiava, non è altro che la conseguenza dei numerosi accordi comunitari con i paesi terzi per la riammissione dei propri cittadini. Tali accordi sono considerati gli strumenti più efficaci per la negoziazione in merito all’immigrazione. Dal punto di vista pratico essi prevedono l’erogazione di un contributo finanziario ai paesi che accettano di collaborare con gli stati europei nella gestione degli immigrati irregolari. Nel documento ufficiale delle conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo del Vertice di Siviglia si legge: “Il Consiglio europeo insiste affinché in qualsiasi futuro accordo di cooperazione, accordo di associazione o accordo equivalente che l’Unione europea o la comunità europea concluderà con qualsiasi paese, sia inserita una clausola sulla gestione comune dei flussi migratori, nonché sulla riammissione obbligatoria in caso di immigrazione clandestina. Una cooperazione insufficiente da parte di un paese potrebbe rendere più difficile l’approfondimento delle relazioni tra il paese in questione e l’Unione”.
Nel Febbraio del 2004 la Tunisia apporta modifiche nella legislazione interna al fine di creare dispositivi punitivi nei confronti di coloro che, anche a titolo benevolo, facilitano l’entrata o l’uscita clandestina di una persona dal territorio tunisino. L’Italia, così come la Spagna e la Grecia, stringono accordi di riammissione con regimi dittatoriali. L’accordo del 6 Agosto 1998 fra Italia e Tunisia prevede il finanziamento da parte delle autorità italiane di centri di trattenimento sul territorio tunisino. Nel 2003 fu concluso un secondo accordo avente come obiettivo principale l’addestramento delle forze di polizia tunisine a un controllo rafforzato della frontiera marittima con l’Italia attraverso un’assistenza tecnica.
Il tentativo di Hassen di fuggire dal Centro di identificazione ed espulsione di Restinco, non verrebbe compreso se non lo si inserisse nel quadro legislativo italiano, che prevede il trattenimento fino a diciotto mesi in tali centri, e che vieta a giornalisti ed associazioni di avere accesso al loro interno per comprenderne le condizioni. Hassen non è fra le 580 persone evase dai CIE d’Italia nei soli mesi di Agosto e Settembre 2011, poiché non è riuscito nel suo intento.
Sarà sicuramente uno dei tanti migranti le cui vite non hanno rilevanza mediatica e suscitano poco interesse per gli storici che selezionano i fatti da raccontare rispondendo alle logiche editoriali di domanda e offerta; non avranno, dunque, in futuro lo spazio che meritano nelle pagine dei libri della storia da conoscere.
L’importanza della memoria storica risiede nella capacità che essa ha di diventare l’esperienza che permette di affrontare il presente. Il popolo italiano non essendo a conoscenza di ciò che attualmente accade agli stranieri nel nostro paese, sta creando inconsapevolmente le condizioni affinché questo pezzo di presente non abbia spazio nella storia e che,quindi, nulla cambi in futuro.


Tra un ricordo sbiadito e un vivo presente

(A proposito dell’affondamento della Kater i Rades)


A prima vista potrebbe sembrare un’opera meritoria: una scultura che ricorda una tragedia potrà far si che quell’avvenimento rimanga impresso indelebilmente nella mente di chi vi passerà vicino. Eppure qualcosa non torna…Il 28 marzo 1997 una nave carica di immigrati albanesi viene affondata al largo del canale di Otranto dalla nave Sibilla della marina militare italiana, provocando ottantuno vittime. Non è stato il caso, non sono state le condizioni del mare particolarmente avverse, vi sono stati dei responsabili precisi. La giustizia, quella democratica, ha fatto il suo corso, trovando, come spesso accade in questi casi, una soluzione alla “Ponzio Pilato”. Poco importa la sua conclusione, lo Stato non condanna mai se stesso. Ora di questa tragedia si vorrebbe fare un evento da commemorare con un’opera scultorea apprezzabile da addetti ai lavori come un’importante opera d’arte. Per ricordare e farne un inno all’incontro, all’umano bisogno di storie, afferma uno dei testi di presentazione dell’evento. Il fatto è che da commemorare non c’è proprio nulla, perché sono ancora vive nelle nostre menti le grida di chi, cadendo in mare ha perso la vita o i suoi parenti. Vive sono le urla di chi ancora oggi, al largo delle coste del Salento, (l’ultimo naufragio è del 27 novembre scorso – 3 immigrati morti e 30 dispersi) o del Mediterraneo, perde la vita in cerca di una speranza di sopravvivenza. Viva è la rabbia e la disperazione di chi in Italia riesce ad arrivarci ma viene impacchettato e rispedito subito indietro, oppure rinchiuso, fino a diciotto mesi, in Centri di Identificazione ed Espulsione perché non ha un documento regolare. La stessa Otranto che si vanta di essere città dell’accoglienza, dichiarata patrimonio dell’Unesco, è anch’essa un anello di questo sistema dell’esclusione. Il suo centro di accoglienza temporanea “Don Tonino Bello” funge infatti da anticamera proprio verso quei rimpatri e verso quei Cie che sospendono il tempo e la vita di migliaia di immigrati. Questo è ciò che ha deciso il diritto democratico, questo ciò che ha deciso l’Economia, di cui gli Stati sono solo un’appendice (ce ne saremo ormai resi conto?). Migliaia di immigrati sono rinchiusi perché la loro vita deve essere contenuta, proprio come la nostra, trasformata ormai in un’appendice della merce e della tecnica. Anche per chi non è straniero infatti, la reclusione  non è cosa così lontana. Nuovi ghetti, nuove aree videosorvegliate, nuove carceri sono pronte a contenere chi semplicemente afferra ciò che non può permettersi, oppure alza la testa davanti a sempre nuovi padroni. Per questo non abbiamo nulla da commemorare ed è per questo che  un senso di fastidio e un moto di rabbia ci assale quando sentiamo di queste iniziative. Perché non serviranno a cancellare le morti in mare, perché non libereranno coloro che sono rinchiusi, perché non fermeranno la mano razzista di chi ammazza chi ritiene diverso. Perché non impediranno ad associazioni come “Integra” , tra i fautori dell’evento, di continuare a lucrare sugli immigrati che da quei centri passano (un esempio è il campo di Manduria). La memoria può essere sovversiva se all’umano bisogno di storie sostituisce l’umano bisogno della libertà.


Tradizioni pugliesi: Manduria

Provate a leggere questo articolo pubblicato sull’edizione di Bari della Repubblica. Vorrebbe raccontare delle intenzioni della politica di chiudere il campo-lager di Manduria, perchè, a quanto si legge dalle dichiarazioni del solito Berluschese-Ferrarese, presidente della provincia di Brindisi, “le condizioni di vita nel campo sono allucinanti”. Beh, qualcuno penserà che sia già un buon passo, il fatto che questo individuo si sia reso conto di dove vive (lui) e di dove vivono (gli immigrati) che sbarcano a Lampedusa e vengono portati in queste tendopoli-lager.

Oltre a queste dichiarazioni,  solite parole al vento della politica più squallida, quella che non cambia mai niente poichè è nella staticità e nella continuazione dello stato di cose che essa sguazza e fa quattrini, naturalmente i fatti vanno in tutt’altra direzione. A Manduria ora sono in 1300, esattamente come nei primi giorni dell’emergenza mediatica, (ma ora ci sono anche donne e bambini molto piccoli)  dopo l’arrivo dell’ennesima nave a Taranto. Quindi aumentano. Le temperature, per chi non ne avesse idea, in questi giorni sono più simili ai paesi di provenienza dei migranti, sfiorano i 40 gradi, e i signori dell’emergenza, i vari Connecting people e Ministero degli Interni hanno pensato bene di installare condizionatori all’interno delle tende…una mossa geniale.

Infine altre dichiarazioni di politici tra assessori regionali, sindaco di Brindisi e l’immancabile governatore con l’orecchino, che danno disponibilità all’uso di una vecchia base americana abbandonata da decenni per ospitare i migranti rinchiusi a Manduria, a patto che venga ristrutturata con i soldi del governo, mantenendo la gestione attuale, quindi quella del consorzio Nuvola. Forse un tentativo di alleviare le sofferenze di chi, con un contratto da sfruttamento e nessuna prospettiva futura, fa la spola da qualche mese tra il campo di Manduria ed il Cie di Restinco. La base sorge infatti a pochi chilometri dal lager per eccellenza del brindisino, quel Cie conosciuto oramai in tutta Italia per gli episodi barbari che lì avvengono continuamente, anche se ora l’isolamento dei reclusi con il mondo esterno  si è fatto più pesante.

Insomma, la Puglia è terra di tradizioni, e l’accoglienza è una di queste…accendete il condizionatore, che non si respira…


11 luglio 1998 Maria Rosas Soledad

A nosotros nos quieren muertos
porque somos sus enemigos
y no les servimos para nada
porque no somos sus esclavos



Leggete "Le scarpe dei suicidi", di Tobia Imperato, Autoproduzioni Fenix
Ora e sempre NoTav!

Io sto con le montagne

Marta, Salvatore, Roberto e Gianluca hanno oggi ricevuto la convalida del loro arresto in seguito ai disordini di domenica 3 luglio in  ValSusa. Restano nel carcere di Torino. La notizia è su tutti i media, tv e giornali. Non c’è alcuna notizia di indagini sull’uso dei lacrimogeni ad altezza uomo, sull’utilizzo del gas CS, quello vietato dalle convenzioni perchè ritenuto arma chimica (ne avete mai respirato uno?  meglio per voi!), nessuna indagine sulle costole rotte, le tende bruciate, le vecchiette con la testa sfasciata, le torture subite dai fermati…forse non interessa alle redazioni dei vari organi di disinformazione. Il pensiero, per chi, anche non essendo potuto essere lì presente, sa da che parte stare, adesso deve andare a loro. Questo articolo compare sul sito Carmillaonline, sembra una via di mezzo tra un dettagliato report di quei momenti ed un racconto. Leggetelo, e se vi piace dedicatelo a quei quattro compagni.

 

di Luigi Franchi

Se dev’esserci violenza che violenza sia / ma che sia contro la polizia

“Cazzo, non riesco a respirare” urla Massimo.
La nube dei lacrimogeni è diventata una cortina talmente spessa da rendere impossibile la comprensione di quanto sta accadendo.
Il fiume di persone che aveva costituito il troncone principale del corteo mattutino è ormai scomparso, lasciando la scena ai manifestanti pronti alla resistenza a oltranza.
Massimo non riesce a sfuggire ai gas che arroventano i bronchi e incendiano le mucose, ha perso di vista Vichi, sua moglie, ed è sempre più preoccupato per l’esito della giornata.
Le forze della polizia stanno accerchiando la zona e a breve non ci sarà tempo per distinguere tra pacifici e violenti.
Lacrimogeni, idranti e manganelli inizieranno a colpire indiscriminatamente qualsiasi cosa abbia la parvenza di un essere umano che non porta una divisa. Continue reading


Cattivi NoTav

Fino a quando tutti i giornali, le radio, i telegiornali e la comunicazione di massa continueranno a stravolgere la realtà dei fatti di domenica in Val di Susa, io continuerò a postare video, testimonianze e link utili per capire come stanno i fatti. A sentir parlare i vari ispettori, capi digos, questori e politici, i poveri uomini in divisa hanno subito vere e proprie aggressioni, rischiando di lasciarci la pelle “per qualche violento che con la Tav non ha nulla a che vedere”…ascolto le schede tecniche dei black block ma non sento parlare di gas CS, i pestaggi sono scomparsi dalle notizie, ma lo sbirro con una fasciatura finta o almeno ridicola è su tutti i tg

Provate ad aprire questo link, fatevi un’idea.


Dal Salento

dalla Repubblica di Bari

Nardò, allerta per il campo immigrati

di Chiara Spagnolo

NARDÒ – L’effetto Manduria si propaga come un’onda fino a Nardò. Nei campi delle angurie gli immigrati arrivano a frotte dalla vicina tendopoli, ma anche da altre regioni, e la masseria Boncuri, allestita per accoglierli, già non basta più. Duecento sono i posti ufficialmente disponibili nelle tende blu schierate davanti all’antica struttura a cui si aggiungono una cinquantina di giacigli improvvisati ma le persone in cerca di lavoro nell’area compresa tra Nardò, Copertino, Leverano e Porto Cesareo, sono molte di più. Almeno 800, nei giorni scorsi, destinate ad arrivare fino a 1.500 intorno alla fine della prossima settimana, quando nel Palermitano terminerà la raccolta delle patate e i contadini a giornata punteranno dritti verso il sud della Puglia. Sono in prevalenza tunisini ma anche algerini, ghanesi e sudanesi. Molti orbitano nel circuito degli stagionali e girano il Meridione seguendo il ritmo delle colture, alcuni sono ex lavoratori di Tecnova, che nei campi salentini hanno ritrovato i caporali che li sfruttavano nei parchi fotovoltaici in costruzione.

Il caporalato, tra i filari di cocomeri, è legge. Sistema che piace alle aziende, perché consente un controllo capillare delle squadre di immigrati, che vengono retribuiti a cassone quando raccolgono pomodori e a ettaro se si tratta di angurie. In entrambi i casi il lavoro è duro e malpagato. Le giornate, piegati sulla terra dall’alba al tramonto, fruttano circa 25 euro ma le prestazioni avvengono per lo più in nero. Certo, la situazione oggi è cambiata rispetto a pochi anni fa ma lo sfruttamento è ancora un’evidenza innegabile. I passi avanti fatti nei campi di Nardò li raccontano i numeri che snocciola Gianluca Nigro, della onlus brindisina Finis Terrae, che, tramite un progetto finanziato per 18.000 euro, gestisce la masseria trasformata in campo insieme alle Brigate di solidarietà attiva.

“Nel 2008 il lavoro era solo irregolare  –  spiega Nigro  –  nel 2009 furono fatti 10 ingaggi, 200 l’estate scorsa, quest’anno siamo già arrivati a 70”. Settanta “fortunati”, che lavorano in modo regolare. La maggior parte di loro orbita intorno alla masseria Boncuri, presidio di civiltà e legalità alle porte di Nardò. Gli altri, rimasti fuori, si arrangiano come possono nei casolari abbandonati, dove la notte si affollano spacciatori e prostitute, e dove nei prossimi giorni arriveranno altre centinaia di persone. Troppe per campi ormai poco redditizi, nei quali il costo del lavoro si abbasserà ancora di più.


ValSusa: resistere con dignità

Un articolo tratto da notav.info, un punto di vista francamente condivisibile in giorni in cui le menzogne mediatiche raccontano una realtà che non esiste ed ignorano completamente la verità. Resistere è un dovere, difendere la propria terra è un dovere, essere aggrediti e militarizzati per installare con forza un cantiere voluto solo dalle lobby del si (multinazionali, gruppi finanziari e tutti i partiti politici) è la dichiarazione di guerra dello stato al suo popolo. Questa è solo la prima risposta. I montanari, solitamente, hanno nella testardaggine una loro peculiarità. I NoTav sono ancora meglio.

Se lo dicono Pierferdinando Casini e Pierluigi Bersani e se ha l’avvallo di un ex comunista che ebbe i permessi Cia per andarsene negli States in anni impossibili, allora è vero. E’ tutto vero: è gravissimo quanto è accaduto oggi in Val di Susa. Deve essere vero, perché lo dicono a destra e sinistra non si sa più di che cosa. Deve essere vero se lo afferma “la Repubblica” insieme al “Corriere della Sera”. E, di fatto, è vero. Però non è vero al modo in cui lo intendono questi spettri che deambulano nella storia universale delle meschinerie. Se 70mila persone si mobilitano e vanno a formare una massa che confligge con apparati polizieschi di Stato, significa che è stato abbattuto un filtro decisivo e che si va a compiere quanto è iniziato a slittare dalla tragedia del G8 di Genova: l’Italia è uscita definitivamente da ciò che cominciò nei primi Ottanta. Cambia tutto. Oggi abbiamo assistito a una guerra e siamo attualmente sommersi da un rovinoso tentativo di mistificazione e di disinformazione.

Secondo le autorità – non si sa oramai nemmeno loro autorità di cosa e rispetto a chi – i manifestanti erano 6-7mila. Erano invece circa 70mila. Ciò è comprovabile. La giornata è controllabile da qualunque prospettiva, da ovunque, è già compattata in migliaia di archivi digitali, resi disponibili e reperibili on line. Spezzettata e frammentata in un organismo vivente di immagini, suoni, voci. Twitter soprattutto e Facebook in parte hanno canalizzato un’informazione capillare e incontrovertibile da parte di qualunque tentativo di falsificazione. Basta informarsi qui, qui, qui, qui e qui e qui e si potrebbe andare avanti all’indefinito. Continue reading


Salute Pubblica: basta CIE!

da www.salutepubblica.net

 

L’ennesima denuncia del garante dei detenuti torna a mettere il dito nella piaga.

Il CIE è un carcere.

La carcerazione vissuta come ingiusta e, per la precisione, effettivamente ingiusta, determina reazioni psicologiche e psicosomatiche negative inducendo sofferenza e, a volte, aggressività.

Non occorre essere esperti in psicologia sociale per constatare la diversità di clima, in tutte le carceri, tra sezione penale e sezione giudiziaria.

Troppo semplice poi strumentalizzare, sull’onda dell’attuale inquietante revival di criteri lombrosiani, questa aggressività nei casi, rari, in cui essa si presenta.

Noi continuiamo a denunciare il CIE come anticostituzionale e ne chiediamo la chiusura.

Ma, fuori dalla logica del “mettere le tendìne rosa al carcere “, ci associamo alla denuncia del garante avv. Desi Bruno.

Per questo dobbiamo insistere su una proposta finora rimasta inascoltata :

che il CIE venga incluso nelle visite/rapporti semestrali delle Ausl;

di carcere si tratta e come un carcere deve essere gestito dal punto di vista del monitoraggio da parte delle agenzie istituzionali che si occupano di salute.

Non riteniamo che sia del tutto infondata la eventuale obiezione secondo cui il CIE non è esplicitamente citato nei siti da visitare; se è per questo la legge di riforma carceraria è precedente a quella di riforma sanitaria e quindi le Usl non vengono citate nel momento in cui il parlamento legifera per l’affidamento (al Medico provinciale) della supervisione igienico-sanitaria delle carceri;

le norme vanno interpretate salvo che dirigenti ed operatori dell’Ausl vogliano autoridursi a fotocopiatori piuttosto che a protagonisti dei percorsi di tutela della salute.

In questa vicenda pare congruo ispirarsi ad uno degli slogans del movimento delle donne , vale a dire “visitare i luoghi difficili” nel senso di essere il più possibile presenti proprio nei luoghi della maggiore sofferenza umana e sociale; perché questo è oggi il CIE per le persone recluse ma anche per gli stessi operatori, sia militari che civili.

Purtroppo non solo questa nostra proposta è rimasta, da sempre, inascoltata, ma si fanno passi indietro anche nelle modalità di gestione dei rapporti semestrali delle carceri.

La sinergia tra chi non vuol cambiare e chi indulge in ruoli da “fotocopiatore” è il cemento armato di istituzioni totali che vogliono sopravvivere gattopardescamente a tutti i costi.

Facciamo una udienza conoscitiva pubblica sul tema invitando chiunque voglia contribuire alla discussione; rompiamo il silenzio, non rendiamoci complici.

Prof. Vito Totire    Salute Pubblica


Tempi difficili

Dice un cantante romano più o meno famoso:

c’è chi ha detto “basta adesso è troppo, mo me riposo, poi, domani lotto”, s’è risvegliato ch’era tutto rotto.

Sono tempi terribili. Non vi sono certezze, tutto è messo in discussione, persino le cose basilari come l’accesso all’acqua, o il bisogno di una casa, o la possibilità di decidere le sorti della terra dove si vive, o la possibilità di scegliersi un posto tranquillo dove andare a vivere (possibilmente migliore di quello di provenienza).

Sono tempi bui. Chi ha il potere sente, come noi comuni mortali, l’avvicinarsi del punto di non ritorno (ma forse lo abbiamo già passato da tempo), e allora, o tenta di mettere delle pezze, per allontanare  la rabbia che inevitabilmente le diseguaglianze portano con loro, oppure tira dritto, e con campagne informative che hanno solo il sapore del lavaggio del cervello, diffonde paura e dice: va bene la protesta, ma pacifica, altrimenti sarà leggittimato l’uso della forza.

Provate a spiegare ai migranti pestati e maltrattati nei cie d’Italia che devono starsene buoni e zitti.

Provate a spiegare a un valliggiano della ValSusa che i metodi per la protesta devono essere democraticamente accettati.

Spiegate ad un precario, ad un disoccupato o ad uno studente che l’unico modo per ottenere il proprio futuro sia quello di votare per il cambiamento.

Spiegate ad una donna che ha subito violenza che non le accadrà mai più.

Spiegate ad una famiglia sotto sfratto che un’occupazione è illegale e controproducente.

Lasciate stare. Con quell’immigrato non potrete neanche parlarci, recluso com è in un lager, impegnato a scansare i colpi di maganello o i lacrimogeni che irritano e  incendiano.

Il precario o il disoccupato, saranno ancora in giro a cercare un lavoro che non sia una forma di schiavitù (legalizzata o meno, poco conta).

Il valliggiano ti guarderà, sorridendo per le cose che dici, ma continuerà a tagliare alberi da mettere di traverso sulle sue strade.

Quella famiglia, poi, sarà impegnata a rendere dignitosa e abitabile l’ennesima casa vuota e abbandonata, e non avrà certo il tempo per annusare nell’aria il cambiamento, quell’illusione tutta tua.

Mi piace, e perciò lo faccio, dedicare un pensiero a tutti quelli che oggi dovranno lasciare la propria casa, senza avere un altro posto dove vivere.

Dedico un altro pensiero a tutti quelli che oggi apriranno il rubinetto dell’acqua e non ne avranno, perchè il pubblico, l’acqua, te la taglia lo stesso, se non hai soldi.

Dedico queste parole a tutti i miei fratelli rinchiusi solo perchè sono nati poveri, o in mezzo ad una guerra. In particolare voglio salutare un amico, M., che per fuggire da un lager è finito in un carcere.

Poi voglio salutare tutti quelli che in carcere ci finiscono perchè non hanno abbassato la testa, e non essendosi ravveduti là dentro ci marciranno.

A tutti quelli che invece fanno finta di niente, guardano altrove, anche se tutto ciò gli accade sotto casa, solo il massimo disprezzo. E le mie più sentite scuse, se vi ho smorzato gli entusiasmi o il vento ora si è fatto fastidioso.