Category Archives: DISCUSSIONI

Barricate e scarponi.

Inserisco, a titolo personale, un breve resoconto della notte appena trascorsa in Val Susa.  La domanda potrebbe essere legittima: cosa hanno da spartire le esperienze di lotta contro i Cie con i No-Tav? Semplice: le lotte, per essere vere, devono necessariamente partire dal basso, non dalle istituzioni nè da momenti che sono istituzionali, e ognuna di queste lotte può essere sempre presa come esempio da seguire. I No-Tav, lasciatemelo dire, sono un esempio per tutti.

Resistenza No Tav. Barricate e scarponi

Notte tra il 23 e il 24 maggio. Il tam tam del movimento suona frenetico. Tutti al presidio Picapera di Vaie. Ci risiamo. La partita sul Tav torna a giocarsi in strada. Alle 21 nel prato davanti al Picapera l’assemblea dura poco: i movimenti di truppe, gli alberghi di Susa pieni di strani turisti, le veline dei giornalisti che assediano il movimento sono indizi che vanno tutti nella stessa direzione. Sarà per questa notte. Da sabato 21 maggio il presidio della Maddalena di Chiomonte è diventato permanente, le sedi di Martina e Ital.co.ge.dei fratelli Lazzaro, le ditte che hanno vinto l’appalto fantasma per la recinzione e l’allestimento del cantiere, sono presidiate dai No Tav. Non c’è bisogno di tante parole: il movimento è deciso a impedire la realizzazione del cantiere, non un chiodo deve essere piantato. Alcuni vanno a Susa per tenere d’occhio Italcoge e Martina, altri si fanno giri per la valle, altri ancora controllano la caserma di via Veglia a Torino. Ovunque ci sono occhi e orecchie. La maggior parte della gente parte per Chiomonte a rinforzare il presidio. Per qualche ora le motoseghe fanno sentire la loro musica. Sulla strada che dalla centrale Enel porta al sito archeologico della Maddalena cadono alberi, si ammassano pezzi di guardrail e vecchie traversine, qualche masso, tutto quel che c’è serve ad erigere la barricata. Alla fine solo su questa strada ce ne saranno ben sei. Altre chiudono ogni accesso da strade e sentieri. La notte è bella ma solo una falce di luna illumina le centinaia di No Tav, sparsi nei boschi, nel breve tratto di sterrata limitrofo all’autostrada. Tante ombre solidali si incrociano tra brevi brillii di lampadine tascabili. Continue reading


Multinazionali della detenzione

L’articolo che segue lo potete trovare su www.attac.it , è un ottimo report sulla gestione dei centri di detenzione per migranti in Italia. La ricerca parte dall’analisi della gara di appalto per l’assegnazione del Cie di Gradisca d’Isonzo, avanguardia delle scelte che poi ricadono su tutti i cie (ricorderete qui i primi focolai di rivolta dei migranti e anche le prime pesanti misure repressive per spezzare sul nascere qualsiasi rivendicazione). Ma Gradisca è anche il primo esempio delle difficoltà di Connecting People a reperire i finanziamenti necessari per avviare le attività. Avevate già letto che le banche non avevano molti soldi da fornire al consorzio. Ora cominciamo a leggere di queste ATI (associazioni temporanee d’impresa), meccanismo puramente economico attraverso il quale la multinazionale più grande che vi partecipa ha agevolazioni enormi per ottenere finanziamenti, che poi mette a disposizione delle altre società partecipanti. Quasi a dire, trovami i soldi e il lavoro sporco lo faccio io. Notate come queste società si occupano addirittura del reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, o peggio ancora, di promozione di interventi a favore dei migranti. Appare evidente come sia sempre più stretto il rapporto tra multinazionali, lavoro, detenzione e “servizi” alla persona.

da Attac Italia

Dopo il “caso-Mineo”, è in arrivo il secondo caso di privatizzazione spinta in fatto di reclusione dei migranti. Dal 1 giugno, infatti, in caso di rigetto del ricorso del Consorzio Connecting People (precedente gestore), il Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) e il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) saranno gestiti da una multinazionale francese della detenzione (di migranti e non) legata a filo doppio a Gdf-Suez.

Aggiudicataria della gara d’appalto indetta dalla locale prefettura è infatti l’associazione temporanea d’impresa (ATI) che vede capofila la società francese GEPSA, in associazione con l’altra società francese Cofely Italia, la cooperativa romana Synnergasia e l’associazione agrigentina Acuarinto.

La privatizzazione della carcerazione in Italia passa, quindi, attraverso la detenzione amministrativa delle persone straniere, vero e proprio “laboratorio” per la prossima estensione alle carceri del modello statunitense di gestione della pena detentiva. Con l’aggravante, se così si può dire, che la struttura comprende anche la gestione dell’adiacente Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo, che per legge non prevede (a differenza del CIE) il trattenimento coatto dei suoi occupanti. Ciononostante, la sua conduzione sarà tra breve affidata alle società che qui sotto esaminiamo.

Iniziamo da Gepsa: l’acronimo sta per Gestion Etablissements Penitenciers Services Auxiliares: una SpA francese con sede in rue Henri Sainte-Claire Deville a Rueil-Malmaison, che (sito ufficiale di Cofely-GDF Suez),  – traduciamo dal sito – è una “filale di Cofely” e “partecipa al funzionamento di stabilimenti penitenziari nel quadro dei mercati multitecnici e multiservizi”. Gepsa nasce nel 1990 e viene definita come “uno dei partner principali dell’Amministrazione Penitenziaria [francese, NdA]”, per cui “interviene in 15 stabilimenti a gestione mista”. Tra le sue finalità c’è quella di “riavvicinare le persone detenute al mercato del lavoro”. Inoltre Gepsa gestisce in Francia, “per conto del Ministero degli Interni, 4 centri di detenzione amministrativa, oltre alla base militare di Versailles Satory per conto del Ministero della Difesa”. Quanto al suo dimensionamento, conta su 270 collaboratori, 34 stabilimenti gestiti in Francia (tra cui i centri di detenzione amministrativa); inoltre forma 1500 persone detenute e propone 1600 proposte di avviamento al lavoro ogni anno, che diventano 182 inserimenti professionali effettivi.

Come si è detto, Gepsa è una filiale di Cofely, società del gruppo multinazionale GDF-Suez, in testa alle classifiche mondiali delle privatizzazioni dei servizi energetici: Cofely, in articolare, si occupa di energie alternative: la sua presenza all’interno del partenariato è la meno attinente al tema, ma è pur vero che Cofely rappresenta all’esterno il marchio GDF Suez.

Molto più attinenti al tema dell’immigrazione le realtà italiane coinvolte: della cooperativa Synergasia, sede a Roma, si sa che dal 21 luglio 2010 gestisce, in accordo con l’Ufficio della Commissione Nazionale Immigrazione, il sito WikiMigration: se ne può quindi prevedere un intervento nel campo della comunicazione interna ed esterna alle strutture. Piuttosto sorprendente, infine, la presenza nell’ATI dell’associazione Acuarinto di Agrigento, organizzazione fino ad oggi attiva nel campo della promozione sul proprio territorio di interventi a favore di migranti e rifugiati.

5 maggio 2011 Roberto Guaglianone – Attac Saronno


Gli schiavi del sole

Green economy? No, schiavitù. E devastazione del territorio. Il caso Tecnova.

grazie a Contrada Tripoli

il video è di Rainews24

http://www.youtube.com/watch?v=AfNmd23HJEQ


Italia, dormi pure!

Questo video è stato girato in Spagna pochi giorni fa. Le proteste dilagano, la gente comune scende in piazza in maniera spontanea, la polizia fa il suo solito mestiere. E in Italia? In Italia si sta bene!


Venezia dice Welcome. Accoglienza degna

da Melting Pot

Con i 24 posti messi a disposizione dalla cooperativa Caracol all’interno del centro sociale Rivolta di Marghera, in un vero e proprio centro di accoglienza che d’inverno ospita i senza fissa dimora, la lettera per un’accoglienza degna lanciata dalla Rete di associazioni veneziane Tuttiidirittiumanipertutti può davvero concretizzarsi nell’inizio di un’avventura straordinaria.

Questa mattina, nel giardino del centro, una trentina di persone rappresentanti di tante realtà anche molto diverse tra loro hanno infatti raccontato ai giornalisti locali cosa intendono loro per “dignità” e “accoglienza”, in controtendenza con le campagne propagandistiche che hanno negli ultimi mesi strumentalizzato l’arrivo e la presenza dei profughi in fuga dal Maghreb.

Questa parte della “società civile” veneziana ha infatti scelto di rispondere a modo suo alle richieste della Prefettura e della Regione Veneto, che arrivano in questi giorni dopo settimane di vaghezza e ambiguità rispetto a quando sarebbero arrivati questi migranti e a quali risorse si sarebbero rese disponibili per loro.

Ognuno, tra le associazioni, i gruppi e i singoli cittadini che hanno firmato la lettera, metterà a disposizione ciò che può all’interno di un progetto unitario e condiviso che è anche la proposta concreta di un modello sociale diverso da quello della paura e del razzismo: la Caracol il suo centro di accoglienza; l’associazione il Villaggio delle risorse economiche per contribuire all’ospitalità di altri profughi qualora i posti non fossero sufficienti; la Cgil il proprio staff legale e una mensa; l’Agesci un servizio di assistenza diretta alle persone; Razzismo Stop insieme a Melting Pot Europa le attività di orientamento e assistenza legale; la scuola di volontari Liberalaparola i corsi di italiano intensivi e l’accompagnamento ai servizi sul territorio; i circoli Arci i propri spazi come centri di raccolta di ogni materiale utile, così come faranno anche i centri sociali Rivolta e Morion i cui attivisti si sono inoltre offerti di collabrorare alla gestione del centro di accoglienza.
E poi ci sarà Emergency con il suo poliambulatorio che farà gli straordinari e con il suo gruppo di volontari pronti ad ogni collaborazione, e ancora i volontari del terzo mondo Magis, Manitese, ma anche gli Ultras antirazzisti del Gate 22 VFMC e il coordinamento degli studenti medi di Venezia Mestre che mobiliteranno anche le scuole per partecipare a quella che hanno definito un’iniziativa di grande valore culturale, sociale e politico. Continue reading


Dalla stazione al Cie

da Indymedia Piemonte

14 maggio. Dieci tra i tunisini che occupano la stazione di Ventimiglia sono stati fermati dalla polizia col pretesto di una rissa e portati nel carcere di Sanremo. Tre giorni dopo, privati del permesso di soggiorno temporaneo, sono stati condotti al Cie di c.so Brunelleschi di Torino, nel quale si trovano attualmente. Non si sa precisamente in che modo sia avvenuto il fermo e sia stato reso possibile il trasferimento nel Cie, né quali siano le accuse a loro carico e la loro situazione legale. Quello che è importante sottolineare è ciò che l’arbitrarietà di questo atto repressivo dimostra: come i permessi e le scartoffie non siano che strumenti di controllo e ricatto e quanto poco ci si possa affidare alle garanzie concesse dal potere. Che sia almeno da monito ad essere sordi verso le facili concessioni


Da Lampedusa a Parigi

Vi avevamo raccontato già di quel gruppo di tunisini che, arrivati a Parigi, avevano deciso di unirsi, creando il Collettivo da Lampedusa a Parigi. La prima emergenza per loro, dopo un viaggio incredibile per arrivare nella piccola isola siciliana, un mese circa di permanenza in Italia tra centri d’accoglienza, strade, il rocambolesco passaggio della frontiera a Ventimiglia, era, naturalmente, una casa. E qui si capisce come davvero l’Europa sia una sola cosa, in fatto di accoglienza del migrante: a Parigi nessuna risposta dalle autorità, nessuna sistemazione possibile, ed anzi, retate, pestaggi e arresti. Così questi tunisini avevano occupato un posto, una palazzina. Di pochi giorni fa la notizia di un violentissimo sgombero dei gendarmi contro questa, seppur precaria, sistemazione.

I tunisini non si sono dati per vinti e, incoraggiati dal clamore di questo sgombero, hanno ricevuto l’appoggio di molti francesi solidali. Ora hanno occupato un altro spazio, una palestra. Le autorità assicurano che non faranno irruzione a determinate condizioni da rispettare. Tutte le informazioni le trovate su Macerie e storie di Torino.

I migranti, con la loro voglia di una vita migliore, entrano in Europa diffondendo il conflitto. E’ lo stesso che hanno scatenato nei loro paesi per chiedere condizioni migliori. E’ proprio quello che mette in evidenza tutte le mancanze e le ipocrisie occidentali.


a volte…

a volte penso di svegliarmi al mattino e scoprire che tutto è cambiato, camminare per strada e vedere uomini innamorati dell’umanità, sentire lingue incomprensibili, che siano tutti impegnati a lavorare la terra o a costruire cose belle, niente cemento, solo alberi, fiori, prati e piccoli orticelli… uccellini che canticchiano e svolazzano senza paura dei cacciatori, e nessun animale affettato in un piatto…è di sogni che si vive, ma cercare di diventare io stess* il cambiamento che voglio vedere nel mondo è l’unico principio che mi dà forza nei momenti di sconforto.

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a volte penso di svegliarmi al mattino sconfortat* dall’esistente, guardando fuori dalla finestra la pioggia che cade inarrestabile, ma che non lava via tutte le nefandezze su cui questo mondo si basa, penso che stando ferm* non solo niente cambierà, ma continuerà inesorabile anche grazie alla mia indifferenza, che diventa complicità…allora dovrò uscire, prima o poi, e con ogni mezzo possibile tentare di sabotare, ostacolare o colpire chi devasta la mia aria, saccheggia la mia terra, mortifica la mia libertà e la mia gioia…a volte anche un piccolo gesto può servire, o è proprio necessario…basterebbe che tutti lo facessero, ognuno a modo suo…sarebbe l’utopia della gioia contro un’esistenza di privazioni imposte, il colore contro il grigio. In fondo è di libertà che abbiamo bisogno.


Appuntamento a Lecce

 

se opporsi alla guerra e contrastare l’indifferenza significa essere delinquenti…


Mediterraneo, cimitero di guerra

condividiamo e perciò pubblichiamo

di Annamaria Rivera – il manifesto

Ancora cadaveri di uomini, donne e bambini che vanno a ingigantire l’immenso sepolcro che è divenuto il Mare Nostrum, un tempo mare che affratellava genti, costumi, culture, oggi confine blindato che separa e stermina, uccidendo quel che resta della nostra umanità.

Le ultime duecentocinquanta vittime del Canale di Sicilia, eritrei e somali – che alcuni media tuttora, pur di fronte a una tale tragedia, osano chiamare «clandestini» o «extracomunitari» – non sono morte solo di proibizionismo, ma anche della nostra colpevole ingerenza «umanitaria» in Libia. Che ha preferito i bombardamenti ai corridoi davvero umanitari, che ha ignorato cinicamente il dovere di salvare anzitutto gli esseri umani e fra i primi i rifugiati, perseguitati e intrappolati dalla guerra civile. Continue reading