Tag Archives: cie

Deportazioni del terzo millennio

Sbirri in abiti borghesi (per passare inosservati) mentre deportano, da Fiumicino alla Tunisia i loro “pacchi umani”. Ben imballati, con nastro adesivo sulla bocca e fascette di plastica ai polsi. Il tutto nell’indifferenza dei passeggeri e del personale di Alitalia, le cui reazioni avrebbero potuto impedire il rimpatrio. L’unico a contestare il trattamento riservato ai due migranti, l’autore delle foto, è stato zittito dagli aguzzini che hanno ribadito come si trattasse di una normale operazione di polizia. A voi i commenti….


Il mio nome è Mnasser Hassen

Pubblichiamo una lettera di un giovane ragazzo tunisino, Hassen.  La lettera è stata scritta durante le ultime settimane di detenzione nel carcere di Lucera. Di lui avevamo già parlato, raccontando le vicende che suo malgrado lo hanno visto protagonista da quando fu trasferito nel cie di Restinco fino alla detenzione in carcere. Segue un breve commento sulle dinamiche legate all’immigrazione con particolare attenzione proprio sul caso di Hassen, che è, se vogliamo, un caso straordinario e assolutamente normale di quello che può accaderti quando sei considerato straniero. Per la gioia di tutti noi, ora Hassen è libero, sta bene ed ha ancora tutte le forze per ricominciare.

Il mio nome è Mnasser Hassen, nato il 28 Luglio 1984 a Sfax in Tunisia, attualmente ristretto nella casa circondariale di Lucera, un paese in provincia di Foggia. Ho deciso di raccontare la storia della mia vita per tutte le persone che come me combattono per la libertà, ai reclusi nei Centri di identificazione ed espulsione e nelle carceri d’Italia, del mio Paese e del resto del mondo.
Come già detto sono nato e cresciuto in una delle più grandi città della Tunisia, all’interno di una famiglia numerosa, ho cinque fratelli e quattro sorelle. All’età di sette anni iniziai a lavorare con mio padre che era proprietario di una piccola barca, uscivamo verso le 17 per rientrare la mattina intorno alle 6. Dopo essermi tolto di dosso l’odore nauseante del pesce, alle 8 ero pronto per andare a scuola. La giornata scolastica si concludeva alle 15 e il tempo a mia disposizione per riposarmi era al quanto limitato, alle 17 si prospettavano le ennesime ore lavorative. Questa routine si ripeteva fino all’arrivo dell’estate, sfruttavo le vacanze scolastiche per poter seguire mio padre in viaggi lavorativi notevolmente più lunghi a differenza delle altre stagioni in cui dovevo rispettare l’obbligo scolastico. Accompagnati da uno dei miei cinque fratelli ci imbarcavamo per circa venti giorni. Mare e scuola sono state le principali protagoniste della mia infanzia. Nel 2002, spinto dal desiderio di creare una famiglia chiesi a mio padre di poter usufruire di uno dei cinque terreni di sua proprietà con l’intenzione di costruire una casa. Ovviamente la sua risposta fu positiva, ma purtroppo il mio progetto fu ostacolato dal comune: in seguito ad una mia richiesta di autorizzazione, dopo aver effettuato un controllo, affermarono che si trattasse di suolo demaniale.
Frustrato e deluso da questi ultimi avvenimenti decisi di partire, destinazione Italia. Come la maggior parte dei miei compaesani che tentano di lasciare il proprio Paese, anche io provai a farlo clandestinamente. Purtroppo la fortuna non fu dalla mia parte e nel tratto di mare tra la Tunisia e Lampedusa a circa 15 km dalle coste siciliane, la nostra barca fu intercettata dai militari del nostro Paese. Riportato a Sfax poi condannato a sei mesi di reclusione nel penitenziario della città. Scontata la pena tornai a lavorare con mio padre finché, nel Novembre del 2004 tramite un articolo letto su un giornale, trovai un corso di scuola alberghiera, partii alla volta di Jerba, un’isola situata al sud della Tunisia, a 350 Km dalla mia città. Con molto impegno riuscii a conseguire un attestato e svolgere uno stage in un hotel con la mansione di aiuto cuoco. Il 25 Ottobre 2005 tentai nuovamente la sorte, imbarcandomi verso l’Italia. Arrivato a Lampedusa fui trasferito nel Cie di un paese in provincia di Foggia. Uscito dal Cie lasciai Foggia per arrivare a Roma, dove risiedeva uno dei miei fratelli. Grazie ai preziosi insegnamenti di mio padre, i quali mi hanno reso un discreto marinaio, ebbi l’occasione di lavorare per cinque mesi all’interno di un peschereccio. Dovetti abbandonare il lavoro in primis a causa del mancato permesso di soggiorno e in secondo luogo per la mia scarsa conoscenza della lingua. Mi misi nuovamente in viaggio verso la Sicilia girandola in lungo e in largo alla ricerca di un lavoro. Passarono tre mesi, ma non cavai un ragno dal buco, pensai che forse andando a Bologna sarei stato più fortunato, non andò come avevo sperato. Mi rimisi in viaggio approdando in Francia dove passai uno dei mesi più brutti e angoscianti della mia vita. Scappai a gambe levate da quella realtà e tornai a Bologna.Non feci in tempo a trovare un’occupazione che l’avevo già persa. Scoraggiato e bisognoso di guadagnare qualche soldo per sopravvivere imboccai la via della perdizione entrando nel mondo dello spaccio di droga, questa scelta mi portò ad avere problemi con la giustizia, ma scampai al carcere rimanendo per quattro giorni in una caserma dei carabinieri. Spaventato da quanto accaduto dissi a me stesso che sarebbe stata la prima e l’ultima volta e che non mi sarei più ritrovato in una situazione del genere. Con l’aiuto di un mio compaesano ebbi l’occasione di lavorare per un anno e quattro mesi svolgendo la mansione di muratore, appena venni a conoscenza che uno dei miei cugini fosse scapato dalla Tunisia e che si trovasse in un paese nella provincia di Trapani, decisi di raggiungerlo. Trovai un impiego come bracciante agricolo, quando dopo circa tre mesi successe un episodio che sconvolse la mia esistenza. Una sera, mentre ero al bar insieme a degli amici, arrivò un ragazzo, anche egli tunisino, annebbiato dai fumi dell’alcol, sostenendo a gran voce che conoscesse uno dei miei fratelli. I toni si fecero accesi, ma la lite sfociò in un nulla di fatto ed io tornai a casa. L’indomani mattina mentre mi preparavo per andare a lavoro, arrivò la polizia chiedendomi le generalità insieme al permesso di soggiorno, di cui ero sprovvisto. Il ragazzo con cui ebbi una discussione la sera precedente aveva sporto denuncia, così fui accusato di tentato omicidio. Fui ristretto nel carcere di Trapani fino al 16 Novembre 2010, esattamente per tre anni e quindici giorni. Una volta uscito fui trasferito nel Cie di Trapani, successivamente in quello di Bari. Chiamarli centri di accoglienza è una definizione del tutto inesatta, il nome che più si addice a questi posti e che riesce a rendere l’idea di come si vive all’interno di essi è lager. Da Bari giunsi nel cie di Restinco- Brindisi dove rimasi solo quattro giorni, ma furono giorni di inferno: quattro notti senza mangiare ne avere la possibilità di fare una doccia poiché l’acqua calda non c’era, e lavarsi con quella fredda non era poi così salutare. Provammo a far valere i nostri diritti in maniera pacifica, ma ricevemmo solo insulti e risposte del tipo: “Ah, perché voi al vostro paese avete una casa, potete permettervi di mangiare e lavarvi!?”.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire il perché di quel trattamento, oltre a privarci della libertà si divertivano ad umiliarci. Spinti dalla disperazione e dalla rabbia ci arrampicammo sul muro di cinta, parecchi riuscirono a scappare, mentre dieci ragazzi, me compreso, vennero fermati dalla polizia. Fui accusato di resistenza e aggressione al pubblico ufficiale. Alcuni poliziotti testimoniarono di avermi visto colpire, munito di un bastone di ferro, un ispettore dei carabinieri e altri agenti, compresi dei militari. Invano il mio tentativo di discolparmi da quelle calugnanti accuse e di chiedere la visione dei video di sorveglianza. Negarono l’esistenza di telecamere all’interno del Cie di Restinco, ma in realtà in ogni angolo dello stesso ne è installata una. Fui condannato ad un anno e due mesi di reclusione.
Oggi, a circa un mese dal mio fine pena che sarà il 3 Marzo 2012, spero con tutto il cuore che una volta tornato in libertà non venga riportato in uno di questi lager italiani dove giornalmente accadono soprusi e abusi di ogni tipo, eppure nella conoscenza della verità, questi episodi non sembrano lasciare tracce rimanendo sinonimi di un male assoluto quanto incomprensibile. Io continuerò a combattere per la mia libertà e per i diritti umani fino all’ultimo respiro. Vorrei ringraziare tutti coloro che leggeranno o ascolteranno la mia triste storia, a chi ricomincia senza dimenticare. Amo il mio Paese così come amo la mia famiglia e non vedo l’ora di poter tornare per riappropriarmi di tutto ciò che ho perso in questi anni.

Mnasser Hassen

La storia di Hassen, raccontata riportando fedelmente quanto scritto su una sua lettera, può apparire la storia di un migrante che percorre una strada irta di ostacoli e sfortunate coincidenze, protagonista di disavventure imputabili all’imprevedibile gioco del fato.
Molte delle sue spiacevoli esperienze possono essere rintracciabili nelle storie autobiografiche dei migranti coraggiosi che, giovanissimi, decidono di affrontare viaggi oggettivamente rischiosi. Quella che sembra essere una scelta spontanea e non vincolata da alcuna costrizione si delinea come la prevedibile evoluzione di un processo globale che allarga a dismisura le disuguaglianze socio- economiche, costringendo, di fatto, un numero sempre più consistente di individui ad abbandonare le loro terre e iniziare un’esperienza con poche prospettive di “riscatto”. Gli ostacoli che incontrano i migranti non sono le esternalità negative di una pianificazione efficiente di gestione di un fenomeno tanto complesso. Niente affatto. Gli ostacoli sono stati voluti, decisi, firmati e programmati.
La storia di Hassen va riletta tenendo conto della Convenzione di Schengen la quale, oltre a stabilire i documenti di cui devono essere provvisti gli stranieri per varcare “legalmente”i confini di uno stato europeo, si occupa anche di creare sistemi di identificazione degli stranieri clandestini e di diffusione, fra i paesi firmatari dell’Accordo, dei dati raccolti attraverso il sistema di riconoscimento degli immigrati irregolari.
La pena detentiva di sei mesi inflitta ad Hassen dopo che è stato riportato in Tunisia, a seguito dell’intercettazione del barcone in cui viaggiava, non è altro che la conseguenza dei numerosi accordi comunitari con i paesi terzi per la riammissione dei propri cittadini. Tali accordi sono considerati gli strumenti più efficaci per la negoziazione in merito all’immigrazione. Dal punto di vista pratico essi prevedono l’erogazione di un contributo finanziario ai paesi che accettano di collaborare con gli stati europei nella gestione degli immigrati irregolari. Nel documento ufficiale delle conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo del Vertice di Siviglia si legge: “Il Consiglio europeo insiste affinché in qualsiasi futuro accordo di cooperazione, accordo di associazione o accordo equivalente che l’Unione europea o la comunità europea concluderà con qualsiasi paese, sia inserita una clausola sulla gestione comune dei flussi migratori, nonché sulla riammissione obbligatoria in caso di immigrazione clandestina. Una cooperazione insufficiente da parte di un paese potrebbe rendere più difficile l’approfondimento delle relazioni tra il paese in questione e l’Unione”.
Nel Febbraio del 2004 la Tunisia apporta modifiche nella legislazione interna al fine di creare dispositivi punitivi nei confronti di coloro che, anche a titolo benevolo, facilitano l’entrata o l’uscita clandestina di una persona dal territorio tunisino. L’Italia, così come la Spagna e la Grecia, stringono accordi di riammissione con regimi dittatoriali. L’accordo del 6 Agosto 1998 fra Italia e Tunisia prevede il finanziamento da parte delle autorità italiane di centri di trattenimento sul territorio tunisino. Nel 2003 fu concluso un secondo accordo avente come obiettivo principale l’addestramento delle forze di polizia tunisine a un controllo rafforzato della frontiera marittima con l’Italia attraverso un’assistenza tecnica.
Il tentativo di Hassen di fuggire dal Centro di identificazione ed espulsione di Restinco, non verrebbe compreso se non lo si inserisse nel quadro legislativo italiano, che prevede il trattenimento fino a diciotto mesi in tali centri, e che vieta a giornalisti ed associazioni di avere accesso al loro interno per comprenderne le condizioni. Hassen non è fra le 580 persone evase dai CIE d’Italia nei soli mesi di Agosto e Settembre 2011, poiché non è riuscito nel suo intento.
Sarà sicuramente uno dei tanti migranti le cui vite non hanno rilevanza mediatica e suscitano poco interesse per gli storici che selezionano i fatti da raccontare rispondendo alle logiche editoriali di domanda e offerta; non avranno, dunque, in futuro lo spazio che meritano nelle pagine dei libri della storia da conoscere.
L’importanza della memoria storica risiede nella capacità che essa ha di diventare l’esperienza che permette di affrontare il presente. Il popolo italiano non essendo a conoscenza di ciò che attualmente accade agli stranieri nel nostro paese, sta creando inconsapevolmente le condizioni affinché questo pezzo di presente non abbia spazio nella storia e che,quindi, nulla cambi in futuro.


Tra un ricordo sbiadito e un vivo presente

(A proposito dell’affondamento della Kater i Rades)


A prima vista potrebbe sembrare un’opera meritoria: una scultura che ricorda una tragedia potrà far si che quell’avvenimento rimanga impresso indelebilmente nella mente di chi vi passerà vicino. Eppure qualcosa non torna…Il 28 marzo 1997 una nave carica di immigrati albanesi viene affondata al largo del canale di Otranto dalla nave Sibilla della marina militare italiana, provocando ottantuno vittime. Non è stato il caso, non sono state le condizioni del mare particolarmente avverse, vi sono stati dei responsabili precisi. La giustizia, quella democratica, ha fatto il suo corso, trovando, come spesso accade in questi casi, una soluzione alla “Ponzio Pilato”. Poco importa la sua conclusione, lo Stato non condanna mai se stesso. Ora di questa tragedia si vorrebbe fare un evento da commemorare con un’opera scultorea apprezzabile da addetti ai lavori come un’importante opera d’arte. Per ricordare e farne un inno all’incontro, all’umano bisogno di storie, afferma uno dei testi di presentazione dell’evento. Il fatto è che da commemorare non c’è proprio nulla, perché sono ancora vive nelle nostre menti le grida di chi, cadendo in mare ha perso la vita o i suoi parenti. Vive sono le urla di chi ancora oggi, al largo delle coste del Salento, (l’ultimo naufragio è del 27 novembre scorso – 3 immigrati morti e 30 dispersi) o del Mediterraneo, perde la vita in cerca di una speranza di sopravvivenza. Viva è la rabbia e la disperazione di chi in Italia riesce ad arrivarci ma viene impacchettato e rispedito subito indietro, oppure rinchiuso, fino a diciotto mesi, in Centri di Identificazione ed Espulsione perché non ha un documento regolare. La stessa Otranto che si vanta di essere città dell’accoglienza, dichiarata patrimonio dell’Unesco, è anch’essa un anello di questo sistema dell’esclusione. Il suo centro di accoglienza temporanea “Don Tonino Bello” funge infatti da anticamera proprio verso quei rimpatri e verso quei Cie che sospendono il tempo e la vita di migliaia di immigrati. Questo è ciò che ha deciso il diritto democratico, questo ciò che ha deciso l’Economia, di cui gli Stati sono solo un’appendice (ce ne saremo ormai resi conto?). Migliaia di immigrati sono rinchiusi perché la loro vita deve essere contenuta, proprio come la nostra, trasformata ormai in un’appendice della merce e della tecnica. Anche per chi non è straniero infatti, la reclusione  non è cosa così lontana. Nuovi ghetti, nuove aree videosorvegliate, nuove carceri sono pronte a contenere chi semplicemente afferra ciò che non può permettersi, oppure alza la testa davanti a sempre nuovi padroni. Per questo non abbiamo nulla da commemorare ed è per questo che  un senso di fastidio e un moto di rabbia ci assale quando sentiamo di queste iniziative. Perché non serviranno a cancellare le morti in mare, perché non libereranno coloro che sono rinchiusi, perché non fermeranno la mano razzista di chi ammazza chi ritiene diverso. Perché non impediranno ad associazioni come “Integra” , tra i fautori dell’evento, di continuare a lucrare sugli immigrati che da quei centri passano (un esempio è il campo di Manduria). La memoria può essere sovversiva se all’umano bisogno di storie sostituisce l’umano bisogno della libertà.


Presidio#1

Queste sono alcune foto dell’iniziativa appena terminata davanti al cie di Restinco. Seguirà un breve report. Le foto sono offerte gentilmente da pugliantagonista.it


Presidio domenica 11 dicembre

Il presidio che si terrà l’11 Dicembre, dalle ore 10,30 alle ore 13,30, presso il CIE/CARA di Restinco (BR) ha come principale obiettivo quello di comunicare ai reclusi e a coloro che vorranno ascoltare, la nostra totale opposizione all’esistenza stessa dei “centri d’identificazione ed espulsione”. Chiediamo l’immediata chiusura di tali strutture, considerabili a tutti gli effetti e in assenza di eufemismi, i lager della democrazia.

La reclusione fino a 18 mesi di individui la cui sola colpa è quella di non possedere un documento è considerabile, oggettivamente, ingiusta e disumana. Gli innumerevoli tentativi di fuga, gli atti di autolesionismo, gli scioperi della fame e le ribellioni che si verificano nel CIE di Restinco, e in tutti gli altri centri dislocati sul territorio italiano, spiegano che i migranti detenuti hanno consapevolezza della loro condizione e non hanno più voglia di rimanere in  silenzio.

In quel giorno noi saremo lì a dire che sosteniamo la loro lotta e ci uniamo a loro. Considerare ingiusta la limitazione della libertà di un individuo implica considerare atto di giustizia il tentativo di evadere dal centro. Sosteniamo tutte le loro forme di ribellione, che per quanto estreme a volte si presentino, nulla sono rispetto alla violenza  e azl razzismo di cui questi lager sono espressione e di cui i migranti sono vittime. Esprimeremo la nostra solidarietà nei confronti di tutti i migranti che hanno cercato una via di fuga e non sono riusciti a raggiungere la libertà e che sono ora detenuti nelle prigioni italiane.

L’indifferenza e il silenzio hanno sempre reso la strada che porta alle ingiustizie, facile da percorrere. Noi vogliamo renderla irta di ostacoli e intransitabile, dichiarando di non voler essere complici di simili mostruosità. Musica e percussioni africane faranno da contorno alla lettura di comunicati e alla possibilità per ognuno di esprimere la propriaidea. Invitiamo coloro che decideranno di partecipare al presidio di munirsi di strumenti il cui suono sia in grado di sfondare i muri che imprigionano.

nociebr.noblogs.org

 


M, la storia è (in)finita

Alcuni mesi fa è stata raccontata da questo blog la storia di una tentata fuga, e delle vicende di uno dei protagonisti, se non il protagonista, un ragazzo che ora ha 27 anni, e che noi chiamiamo M.

Nessuno lo conosce, questo è chiaro, a parte alcuni suoi solidali, fuori, e la maggior parte di quelli che, dentro, erano rinchiusi come lui nel cie di Restinco all’epoca dei fatti. Si ricordano di lui perché, in un gesto che sapeva al tempo stesso di coraggio e disperazione, egli aveva permesso la fuga di un suo compagno di reclusione,  scacciando con una scala le guardie accorse ad impedire la fuga

Per quell’episodio, e questo ha certamente il sapore della vendetta, è stato condannato ad 1 anno e 2 mesi.

Oggi M. ha trascorso 9 mesi in carcere, da quel giorno, e chissà quanti in un cie, prima.

Tra qualche giorno sarà “liberato”, il motivo è che gli è stato notificato un decreto di espulsione, che M. si è rifiutato di firmare. Uscirà dal carcere, ed il giorno stesso sarà deportato in Tunisia, suo paese natale.

Questo è un invito.

E’ una storia raccontata perché nessuno dica che non sapeva. E’ l’esortazione, rivolta a chiunque, a ribellarsi a questo stato di cose, ognuno nelle sue possibilità e ciascuno con tutte le sue volontà, perché si impedisca che una persona venga detenuta e poi deportata e che tutto ciò passi sotto silenzio perché ritenuto oramai la normalità.

A tutto c’è un limite.

L’11 dicembre c’è un presidio sotto il cie di Restinco, perché né M. né gli altri siano soli.

Che sia un grido dal silenzio, un grido d’innocenza che faccia tremare i timpani ai finti tonti. (M., carcere di Lucera, nov 2011)

nociebr.noblogs.org


Chiamiamoli per nome, chiamiamoli omicidi

Bocconi di rabbia ed amarezza per ogni notizia annunciata dai “giornalisti col marchio”. 3 morti, forse 35 i dispersi, tutti gli altri spediti nel cara/cie di Restinco, dopo neanche tre ore dalla tragedia. Li abbiamo visti salire su un pullman scortati dagli uomini in divisa, illuminati in viso dalla luce di una videocamera invadente, e disturbati dalle domande di una giornalista tutta intenta a sottolineare la massima efficienza delle forze dell’ordine e a rassicurare gli ascoltatori che i “clandestini sono tutti adulti” e che “saranno accompagnati nel centro di accoglienza di Restinco”.
Lo yacht di 11 metri è ancora lì, incastrato fra gli scogli della costa di Torre S.Sabina, ondeggia con violenza e, minaccioso, lascia immaginare ciò che è accaduto solo poche ore prime. Si cercano i cadaveri, si aspetta che i corpi vengano sbattuti sugli scogli dalle onde, aggressive e letali.
“Colpa del forte vento, colpa del mare troppo agitato”…e l’ennesimo vortice di rabbia si anima nello stomaco, e riporta alla mente tutte le tragedie che diventano la notizia di pochi minuti, che si smaterializzano in poche ore, che scompaiono dalla mente come scompaiono dalla vista i migranti, chiusi velocemente nei c.i.e. affinché nessuno veda, affinché nessuno sappia .
Saremo di fronte al c.i.e. di Restinco l’11 Dicembre, a denunciare a gran voce che la colpa di tragedie come quella di ieri non è imputabile alla forza inarrestabile del vento e alla rabbia incontrollabile del mare, ma alle leggi razziste dell’insaziabile Europa che vieta ai migranti di raggiungerla senza il pericolo di morire affogati, evitando di esser buttati in mare da scafisti/criminali, senza la paura di esser visti dalla polizia.
Saremo di fronte al c.i.e. ad urlare che la disumanità con la quale si decide di chiudere uomini scampati alla morte in posti come il lager di Restinco non sarà mai tollerata, che non daremo pace a nessuno fino a quando tutti i Centri di identificazione non saranno chiusi e fino a quando ogni recluso non diverrà uomo libero.


Ancora una volta a Restinco

 


Tradizioni pugliesi: Manduria

Provate a leggere questo articolo pubblicato sull’edizione di Bari della Repubblica. Vorrebbe raccontare delle intenzioni della politica di chiudere il campo-lager di Manduria, perchè, a quanto si legge dalle dichiarazioni del solito Berluschese-Ferrarese, presidente della provincia di Brindisi, “le condizioni di vita nel campo sono allucinanti”. Beh, qualcuno penserà che sia già un buon passo, il fatto che questo individuo si sia reso conto di dove vive (lui) e di dove vivono (gli immigrati) che sbarcano a Lampedusa e vengono portati in queste tendopoli-lager.

Oltre a queste dichiarazioni,  solite parole al vento della politica più squallida, quella che non cambia mai niente poichè è nella staticità e nella continuazione dello stato di cose che essa sguazza e fa quattrini, naturalmente i fatti vanno in tutt’altra direzione. A Manduria ora sono in 1300, esattamente come nei primi giorni dell’emergenza mediatica, (ma ora ci sono anche donne e bambini molto piccoli)  dopo l’arrivo dell’ennesima nave a Taranto. Quindi aumentano. Le temperature, per chi non ne avesse idea, in questi giorni sono più simili ai paesi di provenienza dei migranti, sfiorano i 40 gradi, e i signori dell’emergenza, i vari Connecting people e Ministero degli Interni hanno pensato bene di installare condizionatori all’interno delle tende…una mossa geniale.

Infine altre dichiarazioni di politici tra assessori regionali, sindaco di Brindisi e l’immancabile governatore con l’orecchino, che danno disponibilità all’uso di una vecchia base americana abbandonata da decenni per ospitare i migranti rinchiusi a Manduria, a patto che venga ristrutturata con i soldi del governo, mantenendo la gestione attuale, quindi quella del consorzio Nuvola. Forse un tentativo di alleviare le sofferenze di chi, con un contratto da sfruttamento e nessuna prospettiva futura, fa la spola da qualche mese tra il campo di Manduria ed il Cie di Restinco. La base sorge infatti a pochi chilometri dal lager per eccellenza del brindisino, quel Cie conosciuto oramai in tutta Italia per gli episodi barbari che lì avvengono continuamente, anche se ora l’isolamento dei reclusi con il mondo esterno  si è fatto più pesante.

Insomma, la Puglia è terra di tradizioni, e l’accoglienza è una di queste…accendete il condizionatore, che non si respira…


Dal lager di Ponte Galeria

Roma, 13 luglio 2011

Scrivo a nome di cinque persone che sono detenute qua nel centro di Ponte Galeria a Roma.
Siamo quasi 200 uomini e 50 donne detenuti al centro di Ponte Galeria.
Qua siamo detenuti come colpevoli, come persone che hanno commesso un reato.
Perché sei mesi? è un periodo troppo lungo.
E ora vogliono aumentare a diciotto mesi.
Ma quelli che fannno queste leggi non sanno niente della nostra situazione e della nostra sofferenza.
Soprattutto quel partito della Lega Nord, quello del ministro Maroni.
La corte europea ha tolto l’articolo 14 della legge Bossi-Fini e questa è una sconfitta per Maroni.
E allora lui vuole fare una rivincita con un’altra legge che ammazza la gente: vuole convincere gli italiani che è per motivi di sicurezza ma è una legge fatta per un motivo fascista e basta.

Qua c’è gente per bene e gente per male, come in tutto il mondo.
Anche in Veneto, da dove viene lui, ci sono tanti stranieri che lavorano nell’agricoltura e nelle fabbriche.
A Milano e a Brescia il lavoro duro lo fanno gli stranieri.
Noi non siamo venuti qua dalla Tunisia per fare i delinquenti.
Una volta gli italiani hanno fatto per primi l’immigrazione in America.
Dicono che gli italiani sono mafiosi ma ci sono anche italiani per bene che hanno fatto la storia in America.

Noi crediamo all’Italia e all’Europa.
Noi non siamo venuti per fare male.
Io sono tunisino e sono scappato da una situazione disumana.
Dopo la caduta del nostro presidente Ben Alì non è cambiato niente, tutti i giorni ci sono manifestazioni e la gente muore per strada.
Abbiamo sentito che Maroni ha fatto un accordo col nuovo governo della Tunisia e rimandano lì la gente che arriva in Italia.
Ma nei nostri paesi c’è la guerra civile e i rifugiati che arrivano dalla Libia sono tutti qui.
Lì per noi non c’è niente da mangiare.

Ma noi amiamo l’Italia.
Nei nostri paesi guardiamo RaiUno e tifiamo per le squadre italiane.
Io sono nato nella città dove è nata Claudia Cardinale.
Non abbiamo problemi con voi italiani.
Noi veniamo perché sognamo la libertà, come voi una volta sognavate l’America.
E’ il nostro sogno e invece veniamo qua e troviamo un centro come questo a Ponte Galeria.
Perché? noi non abbiamo commesso niente.

Ti dicono che dopo sei mesi esci, ma io sono venuto qua per migliorare, per cambiare, per guadagnare qualcosa per i nostri figli e per le nostre famiglie perché nel nostro paese c’è la povertà.
E invece una mattina ti svegliano alle sei del mattino e entrano 20 persone coi guanti, ti portano in una stanza e ti tolgono tutta la tua roba e ti rimandano a casa.
Qua c’è gente che dell’Italia non ha visto niente, solo questo centro, e non parla nemmeno una parola d’italiano e la rimandano al paese suo senza il telefono e senza le sue cose.
Noi li chiamiamo al telefono e loro non rispondono perché il telefono è qua.
Ma poi quando ci chiamano, ci dicono che li hanno riportati al paese senza niente.

Noi siamo detenuti qua, in una situazione proprio disumana: otto persone in una stanza di quattro metri per quattro.
Viviamo uno attaccato al letto dell’altro.
Chi si alza dopo le otto del mattino non prende la sua colazione.
Chi arriva ultimo per la fila non arriva a prendere il pranzo e la cena perché noi facciamo la fila in 200 persone per prendere il nostro mangiare.
Chi arriva ultimo non arriva a prendere il suo pasto.
Ti danno un buono di 3 euro e 50 al giorno per comprare sigarette, shampoo, merendine, però non bastano, è troppo poco.
Anche per fare la doccia, l’acqua non c’è tutti giorni e nemmeno shampoo, asciugamano e dentifricio.
La gente scappata dalla morte non ha portato lo shampoo e la roba per fare la doccia dal suo paese.

Anche le pulizie non le fanno abbastanza perché i dipendenti della Auxilium si lamentano che li pagano poco e che il loro stipendio è basso.
Quelli della Auxilium ti ridono in faccia e ti accoltellano alle spalle, buttano le pietre e nascondono la mano.
Li chiami e non viene nessuno, sono troppo furbi.
Dei poliziotti non ne parliamo proprio, se dici “buongiorno” non ti rispondono.
Quando rimandano le persone al loro paese le legano come un pacco postale, legano mani e piedi e mettono una fascia sulla bocca per non farle gridare, per non farle sentire al pilota.
Ti fanno salire per ultimo così nessuno ti vede.
I poliziotti sono pronti per intervenire e dare botte come in un mattatoio.
I detenuti spesso si sentono male, hanno fatto il viaggio in mare, vengono dal loro paese e non sanno palrare, nessuno li capisce e la polizia li mena per farli calmare, così quelli dormono e basta.
Gente venuta da un’altra cultura, un altro mondo diverso dall’italia.
Gente che non ha paralto con nessuno e non ha visto niente dell’italia e si sente presa in giro, incompresa.
Le persone qui vorrebbero parlare ma nessuno li capisce, non hanno lingua per parlare e nessuno li ascolta, quindi per questo si ribellano e la polizia li picchia con i manganelli, con calci, pugni e tutto.

Un altro problema: la gente è venuta dal mare, fanno viaggi della morte per arrivare qua.
Quando arrivano sentono sei mesi e gridano tutta la notte, non hanno la testa normale e chiedono al medico tranquillanti perché hanno solo paura del domani, non dormono la notte e cercano un modo nelle medicine.
Gli infermieri ti danno le terapie per drogati e la gente dorme tutto il giorno, hanno la faccia gonfia come drogati e la notte urlano e gridano, sono disperati.
Prendono le gocce e se il giorno dopo devi partire te ne danno di più, così quando ti vengono a prendere non capisci nulla, è per evitare che ti ribelli alla deportazione.

Le nostre richieste sono:

Vogliamo che tutti i cittadini italiani sentano la nostra voce, che vicino a Roma ci sono 250 persone che soffrono di brutto, tutti giovani, donne e uomini, gente che è venuta qua in italia perché sogna la libertà, la democrazia. Perché non abbiamo vissuto la democrazia, abbiamo sentito quella parola ma non l’abbiamo mai vissuta.

Noi chiediamo l’aiuto della gente fuori, aiutateci e dovete capire che qua c’è gente che non ha fatto male a nessuno e che sta soffrendo.

Noi soffriamo già 6 mesi, figurati 18 mesi. Se passa la legge qui c’è gente che fa la corda perché già così, con i sei mesi, c’è gente che si è tagliata le mani, figurati con diciotto mesi, la gente si ammazza, la gente esce fuori di testa.

Chiediamo che la gente là fuori, tutti, anche i partiti politici, faccia di tutto per non far passare quella legge.

Chiediamo che la gente fuori, ogni giovedì mattina, vada a vedere a Fiumicino le persone portate via con la forza, che vada a fermare il massacro.

Un gruppo di detenuti del Cie di Ponte Galeria