Pubblichiamo una lettera di un giovane ragazzo tunisino, Hassen. La lettera è stata scritta durante le ultime settimane di detenzione nel carcere di Lucera. Di lui avevamo già parlato, raccontando le vicende che suo malgrado lo hanno visto protagonista da quando fu trasferito nel cie di Restinco fino alla detenzione in carcere. Segue un breve commento sulle dinamiche legate all’immigrazione con particolare attenzione proprio sul caso di Hassen, che è, se vogliamo, un caso straordinario e assolutamente normale di quello che può accaderti quando sei considerato straniero. Per la gioia di tutti noi, ora Hassen è libero, sta bene ed ha ancora tutte le forze per ricominciare.
Il mio nome è Mnasser Hassen, nato il 28 Luglio 1984 a Sfax in Tunisia, attualmente ristretto nella casa circondariale di Lucera, un paese in provincia di Foggia. Ho deciso di raccontare la storia della mia vita per tutte le persone che come me combattono per la libertà, ai reclusi nei Centri di identificazione ed espulsione e nelle carceri d’Italia, del mio Paese e del resto del mondo.
Come già detto sono nato e cresciuto in una delle più grandi città della Tunisia, all’interno di una famiglia numerosa, ho cinque fratelli e quattro sorelle. All’età di sette anni iniziai a lavorare con mio padre che era proprietario di una piccola barca, uscivamo verso le 17 per rientrare la mattina intorno alle 6. Dopo essermi tolto di dosso l’odore nauseante del pesce, alle 8 ero pronto per andare a scuola. La giornata scolastica si concludeva alle 15 e il tempo a mia disposizione per riposarmi era al quanto limitato, alle 17 si prospettavano le ennesime ore lavorative. Questa routine si ripeteva fino all’arrivo dell’estate, sfruttavo le vacanze scolastiche per poter seguire mio padre in viaggi lavorativi notevolmente più lunghi a differenza delle altre stagioni in cui dovevo rispettare l’obbligo scolastico. Accompagnati da uno dei miei cinque fratelli ci imbarcavamo per circa venti giorni. Mare e scuola sono state le principali protagoniste della mia infanzia. Nel 2002, spinto dal desiderio di creare una famiglia chiesi a mio padre di poter usufruire di uno dei cinque terreni di sua proprietà con l’intenzione di costruire una casa. Ovviamente la sua risposta fu positiva, ma purtroppo il mio progetto fu ostacolato dal comune: in seguito ad una mia richiesta di autorizzazione, dopo aver effettuato un controllo, affermarono che si trattasse di suolo demaniale.
Frustrato e deluso da questi ultimi avvenimenti decisi di partire, destinazione Italia. Come la maggior parte dei miei compaesani che tentano di lasciare il proprio Paese, anche io provai a farlo clandestinamente. Purtroppo la fortuna non fu dalla mia parte e nel tratto di mare tra la Tunisia e Lampedusa a circa 15 km dalle coste siciliane, la nostra barca fu intercettata dai militari del nostro Paese. Riportato a Sfax poi condannato a sei mesi di reclusione nel penitenziario della città. Scontata la pena tornai a lavorare con mio padre finché, nel Novembre del 2004 tramite un articolo letto su un giornale, trovai un corso di scuola alberghiera, partii alla volta di Jerba, un’isola situata al sud della Tunisia, a 350 Km dalla mia città. Con molto impegno riuscii a conseguire un attestato e svolgere uno stage in un hotel con la mansione di aiuto cuoco. Il 25 Ottobre 2005 tentai nuovamente la sorte, imbarcandomi verso l’Italia. Arrivato a Lampedusa fui trasferito nel Cie di un paese in provincia di Foggia. Uscito dal Cie lasciai Foggia per arrivare a Roma, dove risiedeva uno dei miei fratelli. Grazie ai preziosi insegnamenti di mio padre, i quali mi hanno reso un discreto marinaio, ebbi l’occasione di lavorare per cinque mesi all’interno di un peschereccio. Dovetti abbandonare il lavoro in primis a causa del mancato permesso di soggiorno e in secondo luogo per la mia scarsa conoscenza della lingua. Mi misi nuovamente in viaggio verso la Sicilia girandola in lungo e in largo alla ricerca di un lavoro. Passarono tre mesi, ma non cavai un ragno dal buco, pensai che forse andando a Bologna sarei stato più fortunato, non andò come avevo sperato. Mi rimisi in viaggio approdando in Francia dove passai uno dei mesi più brutti e angoscianti della mia vita. Scappai a gambe levate da quella realtà e tornai a Bologna.Non feci in tempo a trovare un’occupazione che l’avevo già persa. Scoraggiato e bisognoso di guadagnare qualche soldo per sopravvivere imboccai la via della perdizione entrando nel mondo dello spaccio di droga, questa scelta mi portò ad avere problemi con la giustizia, ma scampai al carcere rimanendo per quattro giorni in una caserma dei carabinieri. Spaventato da quanto accaduto dissi a me stesso che sarebbe stata la prima e l’ultima volta e che non mi sarei più ritrovato in una situazione del genere. Con l’aiuto di un mio compaesano ebbi l’occasione di lavorare per un anno e quattro mesi svolgendo la mansione di muratore, appena venni a conoscenza che uno dei miei cugini fosse scapato dalla Tunisia e che si trovasse in un paese nella provincia di Trapani, decisi di raggiungerlo. Trovai un impiego come bracciante agricolo, quando dopo circa tre mesi successe un episodio che sconvolse la mia esistenza. Una sera, mentre ero al bar insieme a degli amici, arrivò un ragazzo, anche egli tunisino, annebbiato dai fumi dell’alcol, sostenendo a gran voce che conoscesse uno dei miei fratelli. I toni si fecero accesi, ma la lite sfociò in un nulla di fatto ed io tornai a casa. L’indomani mattina mentre mi preparavo per andare a lavoro, arrivò la polizia chiedendomi le generalità insieme al permesso di soggiorno, di cui ero sprovvisto. Il ragazzo con cui ebbi una discussione la sera precedente aveva sporto denuncia, così fui accusato di tentato omicidio. Fui ristretto nel carcere di Trapani fino al 16 Novembre 2010, esattamente per tre anni e quindici giorni. Una volta uscito fui trasferito nel Cie di Trapani, successivamente in quello di Bari. Chiamarli centri di accoglienza è una definizione del tutto inesatta, il nome che più si addice a questi posti e che riesce a rendere l’idea di come si vive all’interno di essi è lager. Da Bari giunsi nel cie di Restinco- Brindisi dove rimasi solo quattro giorni, ma furono giorni di inferno: quattro notti senza mangiare ne avere la possibilità di fare una doccia poiché l’acqua calda non c’era, e lavarsi con quella fredda non era poi così salutare. Provammo a far valere i nostri diritti in maniera pacifica, ma ricevemmo solo insulti e risposte del tipo: “Ah, perché voi al vostro paese avete una casa, potete permettervi di mangiare e lavarvi!?”.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire il perché di quel trattamento, oltre a privarci della libertà si divertivano ad umiliarci. Spinti dalla disperazione e dalla rabbia ci arrampicammo sul muro di cinta, parecchi riuscirono a scappare, mentre dieci ragazzi, me compreso, vennero fermati dalla polizia. Fui accusato di resistenza e aggressione al pubblico ufficiale. Alcuni poliziotti testimoniarono di avermi visto colpire, munito di un bastone di ferro, un ispettore dei carabinieri e altri agenti, compresi dei militari. Invano il mio tentativo di discolparmi da quelle calugnanti accuse e di chiedere la visione dei video di sorveglianza. Negarono l’esistenza di telecamere all’interno del Cie di Restinco, ma in realtà in ogni angolo dello stesso ne è installata una. Fui condannato ad un anno e due mesi di reclusione.
Oggi, a circa un mese dal mio fine pena che sarà il 3 Marzo 2012, spero con tutto il cuore che una volta tornato in libertà non venga riportato in uno di questi lager italiani dove giornalmente accadono soprusi e abusi di ogni tipo, eppure nella conoscenza della verità, questi episodi non sembrano lasciare tracce rimanendo sinonimi di un male assoluto quanto incomprensibile. Io continuerò a combattere per la mia libertà e per i diritti umani fino all’ultimo respiro. Vorrei ringraziare tutti coloro che leggeranno o ascolteranno la mia triste storia, a chi ricomincia senza dimenticare. Amo il mio Paese così come amo la mia famiglia e non vedo l’ora di poter tornare per riappropriarmi di tutto ciò che ho perso in questi anni.
Mnasser Hassen
La storia di Hassen, raccontata riportando fedelmente quanto scritto su una sua lettera, può apparire la storia di un migrante che percorre una strada irta di ostacoli e sfortunate coincidenze, protagonista di disavventure imputabili all’imprevedibile gioco del fato.
Molte delle sue spiacevoli esperienze possono essere rintracciabili nelle storie autobiografiche dei migranti coraggiosi che, giovanissimi, decidono di affrontare viaggi oggettivamente rischiosi. Quella che sembra essere una scelta spontanea e non vincolata da alcuna costrizione si delinea come la prevedibile evoluzione di un processo globale che allarga a dismisura le disuguaglianze socio- economiche, costringendo, di fatto, un numero sempre più consistente di individui ad abbandonare le loro terre e iniziare un’esperienza con poche prospettive di “riscatto”. Gli ostacoli che incontrano i migranti non sono le esternalità negative di una pianificazione efficiente di gestione di un fenomeno tanto complesso. Niente affatto. Gli ostacoli sono stati voluti, decisi, firmati e programmati.
La storia di Hassen va riletta tenendo conto della Convenzione di Schengen la quale, oltre a stabilire i documenti di cui devono essere provvisti gli stranieri per varcare “legalmente”i confini di uno stato europeo, si occupa anche di creare sistemi di identificazione degli stranieri clandestini e di diffusione, fra i paesi firmatari dell’Accordo, dei dati raccolti attraverso il sistema di riconoscimento degli immigrati irregolari.
La pena detentiva di sei mesi inflitta ad Hassen dopo che è stato riportato in Tunisia, a seguito dell’intercettazione del barcone in cui viaggiava, non è altro che la conseguenza dei numerosi accordi comunitari con i paesi terzi per la riammissione dei propri cittadini. Tali accordi sono considerati gli strumenti più efficaci per la negoziazione in merito all’immigrazione. Dal punto di vista pratico essi prevedono l’erogazione di un contributo finanziario ai paesi che accettano di collaborare con gli stati europei nella gestione degli immigrati irregolari. Nel documento ufficiale delle conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo del Vertice di Siviglia si legge: “Il Consiglio europeo insiste affinché in qualsiasi futuro accordo di cooperazione, accordo di associazione o accordo equivalente che l’Unione europea o la comunità europea concluderà con qualsiasi paese, sia inserita una clausola sulla gestione comune dei flussi migratori, nonché sulla riammissione obbligatoria in caso di immigrazione clandestina. Una cooperazione insufficiente da parte di un paese potrebbe rendere più difficile l’approfondimento delle relazioni tra il paese in questione e l’Unione”.
Nel Febbraio del 2004 la Tunisia apporta modifiche nella legislazione interna al fine di creare dispositivi punitivi nei confronti di coloro che, anche a titolo benevolo, facilitano l’entrata o l’uscita clandestina di una persona dal territorio tunisino. L’Italia, così come la Spagna e la Grecia, stringono accordi di riammissione con regimi dittatoriali. L’accordo del 6 Agosto 1998 fra Italia e Tunisia prevede il finanziamento da parte delle autorità italiane di centri di trattenimento sul territorio tunisino. Nel 2003 fu concluso un secondo accordo avente come obiettivo principale l’addestramento delle forze di polizia tunisine a un controllo rafforzato della frontiera marittima con l’Italia attraverso un’assistenza tecnica.
Il tentativo di Hassen di fuggire dal Centro di identificazione ed espulsione di Restinco, non verrebbe compreso se non lo si inserisse nel quadro legislativo italiano, che prevede il trattenimento fino a diciotto mesi in tali centri, e che vieta a giornalisti ed associazioni di avere accesso al loro interno per comprenderne le condizioni. Hassen non è fra le 580 persone evase dai CIE d’Italia nei soli mesi di Agosto e Settembre 2011, poiché non è riuscito nel suo intento.
Sarà sicuramente uno dei tanti migranti le cui vite non hanno rilevanza mediatica e suscitano poco interesse per gli storici che selezionano i fatti da raccontare rispondendo alle logiche editoriali di domanda e offerta; non avranno, dunque, in futuro lo spazio che meritano nelle pagine dei libri della storia da conoscere.
L’importanza della memoria storica risiede nella capacità che essa ha di diventare l’esperienza che permette di affrontare il presente. Il popolo italiano non essendo a conoscenza di ciò che attualmente accade agli stranieri nel nostro paese, sta creando inconsapevolmente le condizioni affinché questo pezzo di presente non abbia spazio nella storia e che,quindi, nulla cambi in futuro.