Marta, Salvatore, Roberto e Gianluca hanno oggi ricevuto la convalida del loro arresto in seguito ai disordini di domenica 3 luglio in ValSusa. Restano nel carcere di Torino. La notizia è su tutti i media, tv e giornali. Non c’è alcuna notizia di indagini sull’uso dei lacrimogeni ad altezza uomo, sull’utilizzo del gas CS, quello vietato dalle convenzioni perchè ritenuto arma chimica (ne avete mai respirato uno? meglio per voi!), nessuna indagine sulle costole rotte, le tende bruciate, le vecchiette con la testa sfasciata, le torture subite dai fermati…forse non interessa alle redazioni dei vari organi di disinformazione. Il pensiero, per chi, anche non essendo potuto essere lì presente, sa da che parte stare, adesso deve andare a loro. Questo articolo compare sul sito Carmillaonline, sembra una via di mezzo tra un dettagliato report di quei momenti ed un racconto. Leggetelo, e se vi piace dedicatelo a quei quattro compagni.
di Luigi Franchi
Se dev’esserci violenza che violenza sia / ma che sia contro la polizia
“Cazzo, non riesco a respirare” urla Massimo.
La nube dei lacrimogeni è diventata una cortina talmente spessa da rendere impossibile la comprensione di quanto sta accadendo.
Il fiume di persone che aveva costituito il troncone principale del corteo mattutino è ormai scomparso, lasciando la scena ai manifestanti pronti alla resistenza a oltranza.
Massimo non riesce a sfuggire ai gas che arroventano i bronchi e incendiano le mucose, ha perso di vista Vichi, sua moglie, ed è sempre più preoccupato per l’esito della giornata.
Le forze della polizia stanno accerchiando la zona e a breve non ci sarà tempo per distinguere tra pacifici e violenti.
Lacrimogeni, idranti e manganelli inizieranno a colpire indiscriminatamente qualsiasi cosa abbia la parvenza di un essere umano che non porta una divisa. Continue reading
Un articolo tratto da notav.info, un punto di vista francamente condivisibile in giorni in cui le menzogne mediatiche raccontano una realtà che non esiste ed ignorano completamente la verità. Resistere è un dovere, difendere la propria terra è un dovere, essere aggrediti e militarizzati per installare con forza un cantiere voluto solo dalle lobby del si (multinazionali, gruppi finanziari e tutti i partiti politici) è la dichiarazione di guerra dello stato al suo popolo. Questa è solo la prima risposta. I montanari, solitamente, hanno nella testardaggine una loro peculiarità. I NoTav sono ancora meglio.
Se lo dicono Pierferdinando Casini e Pierluigi Bersani e se ha l’avvallo di un ex comunista che ebbe i permessi Cia per andarsene negli States in anni impossibili, allora è vero. E’ tutto vero: è gravissimo quanto è accaduto oggi in Val di Susa. Deve essere vero, perché lo dicono a destra e sinistra non si sa più di che cosa. Deve essere vero se lo afferma “la Repubblica” insieme al “Corriere della Sera”. E, di fatto, è vero. Però non è vero al modo in cui lo intendono questi spettri che deambulano nella storia universale delle meschinerie. Se 70mila persone si mobilitano e vanno a formare una massa che confligge con apparati polizieschi di Stato, significa che è stato abbattuto un filtro decisivo e che si va a compiere quanto è iniziato a slittare dalla tragedia del G8 di Genova: l’Italia è uscita definitivamente da ciò che cominciò nei primi Ottanta. Cambia tutto. Oggi abbiamo assistito a una guerra e siamo attualmente sommersi da un rovinoso tentativo di mistificazione e di disinformazione.
Secondo le autorità – non si sa oramai nemmeno loro autorità di cosa e rispetto a chi – i manifestanti erano 6-7mila. Erano invece circa 70mila. Ciò è comprovabile. La giornata è controllabile da qualunque prospettiva, da ovunque, è già compattata in migliaia di archivi digitali, resi disponibili e reperibili on line. Spezzettata e frammentata in un organismo vivente di immagini, suoni, voci. Twitter soprattutto e Facebook in parte hanno canalizzato un’informazione capillare e incontrovertibile da parte di qualunque tentativo di falsificazione. Basta informarsi qui, qui, qui, qui e qui e qui e si potrebbe andare avanti all’indefinito. Continue reading
Inserisco, a titolo personale, un breve resoconto della notte appena trascorsa in Val Susa. La domanda potrebbe essere legittima: cosa hanno da spartire le esperienze di lotta contro i Cie con i No-Tav? Semplice: le lotte, per essere vere, devono necessariamente partire dal basso, non dalle istituzioni nè da momenti che sono istituzionali, e ognuna di queste lotte può essere sempre presa come esempio da seguire. I No-Tav, lasciatemelo dire, sono un esempio per tutti.
Resistenza No Tav. Barricate e scarponi
Notte tra il 23 e il 24 maggio. Il tam tam del movimento suona frenetico. Tutti al presidio Picapera di Vaie. Ci risiamo. La partita sul Tav torna a giocarsi in strada. Alle 21 nel prato davanti al Picapera l’assemblea dura poco: i movimenti di truppe, gli alberghi di Susa pieni di strani turisti, le veline dei giornalisti che assediano il movimento sono indizi che vanno tutti nella stessa direzione. Sarà per questa notte. Da sabato 21 maggio il presidio della Maddalena di Chiomonte è diventato permanente, le sedi di Martina e Ital.co.ge.dei fratelli Lazzaro, le ditte che hanno vinto l’appalto fantasma per la recinzione e l’allestimento del cantiere, sono presidiate dai No Tav. Non c’è bisogno di tante parole: il movimento è deciso a impedire la realizzazione del cantiere, non un chiodo deve essere piantato. Alcuni vanno a Susa per tenere d’occhio Italcoge e Martina, altri si fanno giri per la valle, altri ancora controllano la caserma di via Veglia a Torino. Ovunque ci sono occhi e orecchie. La maggior parte della gente parte per Chiomonte a rinforzare il presidio. Per qualche ora le motoseghe fanno sentire la loro musica. Sulla strada che dalla centrale Enel porta al sito archeologico della Maddalena cadono alberi, si ammassano pezzi di guardrail e vecchie traversine, qualche masso, tutto quel che c’è serve ad erigere la barricata. Alla fine solo su questa strada ce ne saranno ben sei. Altre chiudono ogni accesso da strade e sentieri. La notte è bella ma solo una falce di luna illumina le centinaia di No Tav, sparsi nei boschi, nel breve tratto di sterrata limitrofo all’autostrada. Tante ombre solidali si incrociano tra brevi brillii di lampadine tascabili. Continue reading
Questo video è stato girato in Spagna pochi giorni fa. Le proteste dilagano, la gente comune scende in piazza in maniera spontanea, la polizia fa il suo solito mestiere. E in Italia? In Italia si sta bene!
Sta tornando alla normalità la circolazione ferroviaria, sospesa dalle 11.35 alle 14.15 tra le fermate di Bari Zona Industriale e Bari Palese, per l’occupazione dei binari da parte di un gruppo di immigrati ospiti del vicino “Cara” di Palese, il Centro di Identificazione Richiedenti Asilo. Il traffico ferroviario è ripreso dopo l’intervento delle squadre tecniche del Gruppo FS, necessario a verificare l’integrità dei binari e il regolare funzionamento dei sistemi di sicurezza.
LE MOTIVAZIONI – Circa 150 immigrati quasi tutti di nazionalità africana hanno protestano in seguito alla bocciatura delle loro richieste di asilo che avrebbero ricevuto ieri dalla Commissione ministeriale competente. “Vogliamo sapere la verità sulle nostre richieste, altrimenti non andremo via da qui – spiegano – anche perchè molti di noi, dopo cinque mesi di attesa nel Cara, ieri hanno scoperto che devono tornarsene a casa: ci auguriamo che la nostra protesta si estenda”. I migranti mostrano cartelloni con le scritte “Documents ora”, “Go away” e “Non vogliamo rilasciare le impronte digitali, ma vogliamo i nostri documenti”‘.Sostegno alla protesta è stata espressa dal Collettivo antirazzista di Sinistra Critica.
DISAGI AL TRAFFICO – In mattinata si sono avvertiti disagi alla circolazione ferroviaria: lo stop ha causato la cancellazione di 25 treni regionali e ritardi medi di circa due ore per quattro convogli a lunga percorrenza. Trenitalia ha attivato servizi sostitutivi per i viaggiatori con bus-navette tra Bari e Foggia e fornito assistenza e informazioni ai circa 8 mila viaggiatori coinvolti. Per altri treni in arrivo sono stati già preannunciati ritardi da parte delle Ferrovie dello Stato. Il traffico ferroviario è ripreso – fa sapere Ferrovie dello Stato – dopo l’intervento delle squadre tecniche del Gruppo FS.
SOSTENITORI DELLA PROTESTA – L’occupazione dei binari ferroviari alle porte di Bari da parte dei migranti cui è stato rifiutato l’asilo politico in Italia è “la logica conseguenza della esasperazione dovuta alla incapacità delle istituzioni nel dare risposte chiare e precise, e delle politiche razziste e xenofobe dei nostri governi nazionali e locali celati da false politiche solidali”. Lo afferma “Sinistra critica” per la quale la protesta “rappresenta una forma di ribellione rispetto alla repressione che tutti i migranti in Italia ed in tutta Europa subiscono quotidianamente”. “Solidarizziamo con le proteste dei migranti del Cara di Bari per la libertà di circolazione, con la loro richiesta di documenti – conclude – e di una vita dignitosa”.
LA PAROLA DEL PREFETTO – Interviene sulla vicenda il prefetto vicario del capoluogo pugliese Antonella Bellomo:”Abbiamo spiegato che possono fare ricorso contro il diniego e nel frattempo nessuno li manderà via dal Cara di Bari. Purtroppo – ha aggiunto – probabilmente davano per scontato che le loro richieste sarebbero state accolte: adesso le esamineremo caso per caso”.
CASI DUBLINO – Un problema a parte sono i “cosiddetti casi Dublino – ha spiegato il prefetto Bellomo – che riguardano coloro che hanno presentato le domande in altri Stati europei. A Bari di “casi Dublino” ce ne sono in tutto 80, la metà dei quali proviene dalla Grecia. Per presentare i ricorsi contro il diniego, i migranti dovranno sostenere spese legali. Chi le pagherà? “Ci sono alcune associazioni – ha continuato – e anche il Comune di Bari che si sono offerti di aiutarli”.
“I migranti vorrebbero tutti un permesso temporaneo, come è accaduto per i tunisini, per lavorare e circolare. Ma questo può deciderlo solo il governo. Noi a Bari – ha concluso Bellomo – non abbiamo la soluzione a tutti i loro problemi”.
Vi avevamo raccontato già di quel gruppo di tunisini che, arrivati a Parigi, avevano deciso di unirsi, creando il Collettivo da Lampedusa a Parigi. La prima emergenza per loro, dopo un viaggio incredibile per arrivare nella piccola isola siciliana, un mese circa di permanenza in Italia tra centri d’accoglienza, strade, il rocambolesco passaggio della frontiera a Ventimiglia, era, naturalmente, una casa. E qui si capisce come davvero l’Europa sia una sola cosa, in fatto di accoglienza del migrante: a Parigi nessuna risposta dalle autorità, nessuna sistemazione possibile, ed anzi, retate, pestaggi e arresti. Così questi tunisini avevano occupato un posto, una palazzina. Di pochi giorni fa la notizia di un violentissimo sgombero dei gendarmi contro questa, seppur precaria, sistemazione.
I tunisini non si sono dati per vinti e, incoraggiati dal clamore di questo sgombero, hanno ricevuto l’appoggio di molti francesi solidali. Ora hanno occupato un altro spazio, una palestra. Le autorità assicurano che non faranno irruzione a determinate condizioni da rispettare. Tutte le informazioni le trovate su Macerie e storie di Torino.
I migranti, con la loro voglia di una vita migliore, entrano in Europa diffondendo il conflitto. E’ lo stesso che hanno scatenato nei loro paesi per chiedere condizioni migliori. E’ proprio quello che mette in evidenza tutte le mancanze e le ipocrisie occidentali.
Chissà se adesso il leader dei sinistri, Marco Travaglio, l’amico dei Santoro e dei Grillo, quello che ha fatto della (presunta) legalità la sua bandiera, brandendola ogni giorno contro Berlusconi quasi fosse una sua ossessione personale, forse credendo che i problemi italiani siano legati solo all’attuale classe politica che governa questo paese, chissà se adesso avrà imparato cosa è un cie. Impegnato com è, giorno e notte, a leggere le carte processuali del premier e a fare spettacoli teatrali incentrati sul rispetto della costituzione e della legalità, forse non si era accorto dell’esistenza di lager per migranti autorizzati, appunto, dalla legge. Adesso il suo giornale pubblica un’intervista ed un video sul neo-nato cie di Santa Maria Capua Vetere, presunto centro d’accoglienza per stranieri nato con l’emergenza degli sbarchi e diventato, dalla sera alla mattina, un cie, tramite un decreto del ministro Maroni. Ora, se qualcuno gli chiedesse cosa ne pensa dei cie, si spera che non risponda più come fece ad alcuni di noi, prima di un suo spettacolo, dicendo ” io dei cie non so nulla, sono di Torino”. Dopo il cie campano, lo invitiamo a documentarsi su quello di Corso Brunelleschi, proprio a Torino. Chissà che magari non scopra che la legalità molto spesso giustifica crimini orrendi.
Questo è il video, da vedere:
Questo è l’articolo da Il Fatto Quotidiano:
Samir: “La mia prigionia nelle tende blu del Cie”
Chiuso in un campetto circondato da una rete. Osservato giorno e notte dagli agenti. Costretto in una tenda con dieci persone. E alla fine, magari, rispedito in Tunisia. Per finire nella “piccola Guantanamo”, come viene chiamata dai migranti, Samir ha dato tutti i risparmi agli scafisti e ha rischiato di morire su un relitto fino a Lampedusa. “Sarai ospitato in un centro di accoglienza”, gli hanno detto portandolo a Santa Maria Capua Vetere. E invece lo hanno rinchiuso in questo campo di calcio che con un decreto è stato trasformato in Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Una specie di prigione.
Difficile accertare come siano trattati gli “ospiti” del Cie di Santa Maria Capua Vetere. Entrare è impossibile. Devi salire all’ultimo piano di uno dei condomini che si affacciano sulla vecchia caserma che ospita il campo. Da lassù capisci: da una parte il carcere militare, dall’altra la caserma. Nel campo ecco una quarantina di tende blu. Intorno decine di poliziotti e carabinieri con le camionette. Gli immigrati sono costretti a passare le giornate dentro le tende.
Lo chiamano Cie, ma ricorda un po’ le immagini del Sudamerica negli anni Settanta: “Il 26 aprile quei disperati si sono ribellati: hanno cercato di scavalcare il muro di cinta alto sei metri. C’erano ragazzi che cadevano, che si ferivano con i cocci di bottiglia in cima al muro. Urla, sangue. Decine sono scappati, gli altri sono rimasti al campo”, racconta Luisa, una donna che dal suo appartamento si vede davanti la scena. Ma che cosa è successo davvero a Santa Maria Capua Vetere? Gli avvocati Cristian Valle e Antonio Coppola hanno raccolto i racconti di Samir e dei suoi compagni nei verbali della polizia: “Ci hanno portato qui il 18 aprile. Nonostante ci dicessero che avremmo avuto un permesso di soggiorno temporaneo, da quel giorno è come se fossimo in prigione. Addirittura il 21 aprile il governo ha trasformato il campo in un Cie, senza nemmeno che fossimo avvertiti”. Quando i tunisini apprendono che la struttura che doveva accoglierli, curarli e restituirli alla libertà, si è trasformata in una prigione, scoppia la ribellione che il 26 aprile porta alla maxi-evasione. Da quel momento le condizioni di detenzione per chi non è riuscito a fuggire diventano durissime. “Dicono che abbiamo firmato un foglio che li autorizzava a trattenerci, ma non è vero”, raccontano gli immigrati nei verbali.
Già, il primo punto è questo: “Le autorità dicono che i tunisini avrebbero autorizzato la polizia a trattenerli. Ma gli immigrati a noi raccontano di aver firmato per ottenere i vestiti. Alcuni giurano che le firme non sono le loro”, sostiene Mimma D’Amico del centro sociale Ex Canapificio di Caserta. Mimma è una ragazza con gli occhi azzurri che contrastano con questo ambiente duro. Con i suoi amici da anni segue gli immigrati, a cominciare dagli africani che a due passi da qui, a Casal di Principe, vivono – e vengono uccisi – come bestie.
I ragazzi dell’Ex Canapificio, insieme con la Caritas, seguono i tunisini del campo: “Abbiamo presentato un esposto. Non si può trasformare l’assistenza in detenzione”.
Ma in mezzo all’ondata di decine di migliaia di immigrati, i 102 ospiti di Santa Maria Capua Vetere sono stati dimenticati. È Abdul, il nome è di fantasia, a raccontare la loro storia: “Siamo 11 per ogni tenda, senza vestiti. Ci lasciano andare in bagno una volta al giorno… dobbiamo fare i nostri bisogni nelle bottiglie. E non possiamo nemmeno andare in infermeria… siamo trattati come animali. Di notte c’è freddo, ci hanno dato solo una coperta. Siamo costretti a dormire sempre perché non c’è la luce”. Abdul adesso potrebbe essere rispedito in Tunisia: “Sarebbe una tragedia. Ben Alì se n’è andato, ma ci sono i suoi amici. La gente come noi che ha partecipato alle manifestazioni rischia grosso”.
Tutto vero? Questo raccontano Abdul e i suoi amici. Di sicuro i tunisini secondo la legge avrebbero il diritto di essere ascoltati uno per uno. Dovrebbero essere ospitati in condizioni dignitose, anche se negli ultimi giorni (da quando la Croce Rossa gestisce il campo) le tende sono meno affollate e i controlli più elastici.
Il racconto di Abdul trova comunque conferme nelle parole di Marco Perduca, senatore radicale (gruppo Pd) che ha visitato il campo: “Questo centro è fuori della legge. Non può ospitare persone addirittura per sei mesi. Non si può stare così… nei giorni scorsi ha piovuto, ci sono materassi bagnati, gente che dorme praticamente per terra. E poi mancano controlli sanitari: se ci fossero persone con malattie infettive qui non si saprebbe. Per non dire dei feriti… ho visto persone ingessate, altre con tumefazioni che potrebbero essere provocate da scontri fisici”. Non basta: “Le persone che richiedono assistenza non dovrebbero stare nel Cie, invece noi abbiamo visto anche famiglie, perfino un minore… gente che vive ignorando che cosa li aspetta”.
Dalla Prefettura di Caserta la raccontano diversamente: “Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Emergenze? C’è stata una fuga di massa. Qualcuno si è ferito scavalcando il muro”. Gli immigrati dicono che non vi hanno mai autorizzato a trattenerli… “Hanno firmato di loro spontanea volontà”. Gli agenti del campo, però, sussurrano: “Qui è un casino: da una parte ci sono questi poveracci, dall’altra ci arrivano ordini da Roma. E noi siamo in mezzo”.
La signora Luisa dalla finestra della sua casa sorride amara: “Mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano firmato per essere trattati così. Chissà… parlano arabo, non capiscono una parola di italiano, se un carabiniere gli dice di firmare un foglio che cosa volete che facciano?”. Poi Luisa guarda lontano, verso la campagna di Casal di Principe, verso l’orizzonte, dove si vede il bagliore del mare, Napoli: “Questa è una terra difficile. Abbiamo un sacco di guai per conto nostro, ma quei ragazzi fanno pena. Chissà cosa direbbero le loro madri se li vedessero ridotti così”.
Ogni volta che si parla di Libia non nascondo un certo disagio a sentire o dire. Qualsiasi cosa. Perchè seduti comodamente davanti ad un computer si può dire di tutto, si può pensare di tutto, tranne forse proprio la realtà. Sono fermamente convinto che un cambiamento, vero, si ottenga solo attraverso pratiche di conflitto, autentiche e senza compromesso alcuno. Quindi anche il sangue è uno dei protagonisti. Ho letto questo brano con il fiato sospeso, e credo sia molto valido prima di tutto poichè è stato scritto sul campo, a Misurata, e anche perchè riesce a rappresentare tutto quello che è necessario fare, quasi fosse proprio il manuale del ribelle. E’ inutile stare a dire quanto siano legate vicende come questa, con le storie di chi poi fugge e trova una fortezza che ripropone, a livelli diversi, ma non disuguali, lo stesso sfruttamento e la stessa sottomissione. Prendetela come una lettura accademica, dedicata a chi parla di rivoluzione senza fare i conti con i propri scheletri.. Continue reading
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